Passare una notte nell'hotel dei migranti, a Paradiso

Le recensioni online dell’hotel Dischma non parlano di sofferenza, guerre e frustrazione. «Ottimo cibo, consigliatissimo per i pasti». C’è chi elogia la posizione - in centro a Paradiso - chi il personale «molto gentile» e chi al massimo si lamenta per «il rumore nei corridoi». Il fatto che l’albergo ospiti una cinquantina di richiedenti l’asilo per conto del Cantone sembra passare inosservato almeno su Booking. Neanche l’auto-presentazione della struttura ne fa menzione. Ci mancherebbe.
Un trasloco tira l’altro
Negli ultimi mesi il tema dell’accoglienza dei migranti in Ticino è tornato di attualità, dopo che la chiusura del vecchio centro per minorenni di Paradiso, vicino alla stazione, ha costretto il Cantone a una serie di spostamenti «tattici». I minorenni - una novantina - sono stati prima trasferiti all’hotel Dischma, poi al centro della Croce Rossa a Cadro. Una specie di domino o tetris: per fare loro posto una cinquantina di migranti ad aprile sono stati spostati a loro volta da Cadro all’hotel Dischma.
Ed eccoci qui. Tre stelle e cinque piani a prezzi modici nel centro scintillante di Paradiso. Che non sia un hotel «normale» lo si capisce dai panni stesi e i materassi che prendono aria sui balconi: ma in realtà il Dischma rimane aperto anche ai turisti. È un caso raro tra le pensioni a cui viene «esternalizzata» l’accoglienza cantonale (una quindicina in Ticino, di solito fully-booked) e offre una possibilità unica di insight per turisti e giornalisti almeno in teoria. In pratica La Domenica ha chiesto al Cantone di visitare l’albergo, ma la risposta è stata negativa. Non resta che prenotare una stanza come farebbe un cliente qualunque.
Check in, ma senza poltrone
L’esperienza inizia con una prenotazione normalissima (70 franchi) su Booking. La cosa strana, forse, è proprio che nessun avviso viene dato al cliente del fatto che il soggorno non sarà un’esperienza qualunque. Alla reception un custode gentile dà le solite informazioni - Ticino Ticket, la password del Wi-Fi - e registra i nuovi arrivi. Ci sono anche una coppia di entusiasti turisti malesi e due anziani svedesi, che aspettano in piedi il loro turno: altro fatto curioso, nella hall non ci sono poltrone né sedie e la sala comune è chiusa.
Forse aprirà per cena? «No, non è possibile cenare in albergo, spiacenti» si scusa il custode. «Il ristorante è riservato al gruppo». Non precisa cosa intenda con «gruppo» ma sembra riferirsi agli uomini e donne (un paio, velate) che vanno e vengono dai piani superiori. I migranti - la parola non viene mai pronunciata nell’albergo - stanno al terzo e quarto, i turisti al primo e secondo. Gli incontri tra le due categorie sembrano non essere contemplati, anche se non c’è alcun divieto esplicito.
Due mondi separati
Stanza confortevole, mobilio anni ‘80, fin troppo grande per una persona sola. Lo spazio extra (due letti singoli e uno a castello), il frigorifero chiuso a chiave, la televisione: sono piccoli lussi che, se fossero presenti anche ai piani superiori, sarebbero forse graditi. In realtà sono indizi di una differenza di trattamento, un occhio di riguardo (anche se la televisione non funziona: il custode getta la spugna dopo svariati tentativi di connetterla) per i turisti paganti.
L’impaccio appare più evidente quando, tornati alla reception, si tocca con il custode l’argomento colazione. «Guardi, le sconsiglio di farla in hotel - avverte -. Parlo contro il mio interesse, a pochi passi ci sono un ottima pasticceria e un bar che serve croissant a buon prezzo». Come disincentivo il receptionista insiste proprio sul prezzo, venti franchi, che è «quasi il doppio rispetto all’esterno».
È raro imbattersi in un hotel che sconsigli i propri servizi ai clienti: ma questa come altre stranezze del Dischma si spiega con la necessità di tenere i turisti (inconsapevoli) alla larga dal bagaglio di storie umane e sofferenza che l’albergo in questo momento ospita. «Sono fuggito perché non volevo fare la fine di mio fratello» racconta in arabo Hassan, un 32.enne del Sud Sudan che gioca a basket in un parchetto poco lontano dall’albergo: tira a canestro e pensa alla guerra civile nel suo Paese d’origine. «È stato ucciso. Anche i miei genitori sono morti. Ho attraversato il deserto e il mare, ed eccomi qua».
Quattro guerre in una stanza
È il tramonto. Hassan piazza l’ultimo tiro e si affretta a rincasare. «Dobbiamo essere in albergo all’ora esatta altrimenti saltiamo la cena» dice. Lo stranisce sentire che i turisti non possono cenare con i migranti. «Non capisco perché» riflette.
Un’idea del motivo ce l’ha invece Mohammed, ma preferisce spiegarla tra le mura della sua camera, al riparo da occhi indiscreti. Anche lui è scappato dalla guerra, come buona parte degli ospiti fissi dell’albergo: Siria, Etiopia, Iraq, Congo. Il campionario della devastazione è ben rappresentato nella stanza che Mohammad condivide con tre compagni di sventure. «Ho perso la speranza di tornare al mio Paese» confida. Poi si distrae con quelle che al confronto sembrano quisquilie. «Qui tutti siamo sopravvissuti a cose ben più gravi, ma vivere per mesi in quattro adulti in un monolocale non è il massimo della vita».
Qui ci si può immaginare - la immagina anche Mohammad - la reazione indignata del contribuente-pagante: ma come, vivono in un albergo (a tre stelle) e si lamentano? «Non siamo degli ingrati ma provate a mettervi nei nostri panni» dice George (nome di fantasia, come i precedenti) che viene dal Congo dilaniato da trent’anni di conflitto civile. In effetti la stanza parla da sola: un armadio per quattro, un frigorifero minuscolo, i panni appesi ad asciugare sui letti e le scarpe ammassate all’ingresso. «Non è un posto concepito per un soggiorno lungo, tantomeno per quattro o cinque persone» ribadisce un ospite appena uscito dall’unica doccia disponibile.
La differenza tra il «gruppo» e i turisti svedesi e malesi è di quantità, più che di sostanza. La condizione di turista è invidiabile: ma prolungata per mesi e anni può somigliare a una prigione. «Le giornate non passano mai e in questa situazione è difficile anche solo distrarsi: studiare, fare sport, telefonare» sottolinea un ospite siriano in un’altra stanza, identica alla prima. Mohammad annuisce in un angolo.
La protesta del cibo
L’attesa è una dura prova per i nervi umani. Il fatto che sia collettiva è una magra consolazione, ma al Dischma gli spazi comuni sono chiusi fuori dai pasti. E i pasti sono un altro problema. «Il cibo può sembrare un dettaglio ma non lo è quando non hai altro» riflette mentre Yusuf, originario della Somalia, ripercorre il menù della settimana: «Pasta al pomodoro, riso al pomodoro, pizza surgelata. Praticamente non mangiamo altro a pranzo e a cena. A colazione ci danno un frutto e due fette biscottate». L’argomento è sensibile: in passato non ha mancato di scatenare tensioni in altre strutture (a Casa Annita a Muralto, a novembre scorso, dovette intervenire la polizia). Il problema sarebbe stato segnalato alla struttura. Forse è per questo che di recente è stato pubblicato un annuncio per la ricerca di un «cuoco indiano con esperienza».
Attesa snervante
Mohammad fa notare come alla stessa dieta siano sottoposti «anche alcuni minorenni» che vivono nell’albergo con le famiglie. Uno di questi - avrà una decina d’anni - è seduto sul pianerottolo a giocare con il telefonino. Non si muove da un’oretta. «Non sapere cosa fare del proprio tempo è la cosa più snervante di questa situazione» sottolinea Mohammad. «Alcuni di noi possono frequentare dei corsi di italiano, la mattina. Altri vanno al parco a fare sport. Ma il resto del tempo lo passiamo nell’attesa».
Nelle stanze la serata trascorre giocando agli onnipresenti telefonini, sui letti a castello, oppure a carte sul pavimento: non ci sono sedie né tavolini nelle camere. Chi decide di uscire non va lontano. Paradiso alle 22.00 è un deserto impeccabile in cui, con lo spillatico dei richiedenti l’asilo - 21 franchi a settimana - è meglio non avventurarsi. Solo i balconi illuminati del Dischma brulicano di vita, tra sussurri e voci che risuonano da paesi lontani in video-chiamata. Una a una le luci si spengono e cala il silenzio.
Colazione continentale
La notte trascorre tranquilla e senza i «rumori nei corridoi» di cui parlavano le recensioni online. Il check-out è alle 10.00. E al momento della colazione riemerge di nuovo la contraddizone latente nell’hotel dei migranti: questa volta il personale li definisce «studenti» o «apprendisti dell’albergo», per spiegare ai turisti in pantofole e pigiama come mai loro non possono accedere al buffet mattutino, e gli altri invece sì. «Only for the students, studenten, studenti» dice la barista. «I turisti non possono fare colazione». Una donna con l’hijab e un pakistano in abito tradizionale chinano lo sguardo sui vassoi, imbarazzati. La menzogna forse non è nuova ma abituarcisi è difficile: specie se è imposta.
La coppia di anziani svedesi se ne va con disappunto. «Non torneremo mai più» sussurra la signora tra i denti. Difficile dire se la scena sia frequente e dovuta al trattamento in sé, o all’effetto sorpresa. Ma la barriera tra turisti e migranti non è invalicabile: bisogna insistere e pagare la tariffa extra - venti franchi, per davvero - e alla fine la colazione viene servita in extremis. Una mela, tre fette biscottate, marmellata e burro monodose, caffè. Non proprio la «variegata colazione a buffet» promessa da Booking. È la conferma di quanto dicevano Mohammad e compagni: il problema non è la qualità ma la quantità (scarsa eppure eccessiva), la ripetizione per settimane e mesi senza conoscere la fine. Il check-out dall’impaccio appare come un sollievo, per chi può permetterselo.