Politica, Cda e la nuova «corsa alle cadreghe»

Politici e partiti che si azzuffano nella corsa alle poltrone delle società controllate dalla città non sono proprio un gran bel vedere. Anzi, sono la faccia brutta di un sistema che davvero non riesce a non dare l’impressione che tutto, o quasi tutto, sia possibile, soprattutto mentre si è in attesa di un nuovo regolamento - proposto oltre dieci anni fa e poi ritardato e congelato sino all’ultimo rimpasto elettorale - che aggiorni e definisca finalmente le regole del gioco.
Non dovrebbe essere un compito troppo difficile, non vi pare? I criteri da prendere in considerazione, del resto, sarebbero pochi e molto semplici: eleggibilità della persona, procedure di elezione e condizioni d’impiego: in altre parole chi, come e… quanto. Intanto, invece, si naviga a vista in acque piuttosto agitate dove individualismi e interessi di bottega vari si scontrano in un intreccio di sgambetti, polemiche, qualche accusa e purtroppo pochi, pochissimi imbarazzi.
Per qualcuno ci ritroviamo di fronte a un «teatro dell’assurdo»: ci sta, come no. Peccato poi che nessuno abbia il buon gusto di ritenersi tra i protagonisti dello spettacolo! La colpa come sempre assume una dimensione impersonale e immateriale che tutti sono pronti a riconoscere e a distribuire ma mai a condividere. E allora si va avanti alla meno peggio, con le manovre degli schieramenti politici che passano a volte al di sopra di ogni logica e addirittura anche di quelle che dovrebbero essere le loro stesse strategie più a lungo termine.
Le prove di forza non pagano quasi mai e in questo senso ci si potrebbe interrogare sull’opportunità di suscitare la profonda contrarietà - almeno di facciata - di chi in futuro potrebbe essere chiamato a essere un prezioso alleato nella rincorsa verso obiettivi ben più importanti. Ma queste sono speculazioni che non mi toccano più di tanto e che lascio dunque a chi dovrà fare i conti con le proprie scelte e con gli strascichi della memoria collettiva. A me, come sempre, interessa il messaggio di disagio che ancora una volta la città si ritrova a lanciare e che rischia di rendere ancora più marcata la sensazione di disaffezione e di sfiducia nei confronti delle istituzioni.
Perché rendere difficile e complicato, insomma, ciò che potrebbe essere semplice? Con il rischio, appunto, di stimolare diffidenza e distacco da parte di chi osserva. Perché se le cose vanno così anche quando devono essere obbligatoriamente rese pubbliche, figuriamoci che cosa può accadere a livello di pratiche e decisioni che restano all’interno di circoli ristretti e non necessitano di passare attraverso le forche caudine del normale processo democratico.
La tentazione più facile, a questo punto, sarebbe quella di passare oltre in modo tutto sommato indolore, magari con appena un leggero retrogusto di rassegnazione: qualcuno, dopotutto, deve pur rappresentare la città nelle sue stesse aziende e su questo possiamo essere tutti d’accordo, seppure con qualche riserva sulle modalità. Se il principio è quindi da considerare comunque accettato e metabolizzato non significa però che non si abbia il diritto di pretendere che si evitino certe cadute di stile da primi della classe al limite dell’offensivo nei confronti di altre realtà e che ci siano risparmiati almeno i tempi supplementari di una disciplina in cui anche noi - proprio come tutti, senza eccezioni individuali o di gruppo - disponiamo di autentici talenti: la famosa e universale corsa alla cadrega. Che un giorno, magari, qualcuno avrà l’intuizione e il coraggio di inserire nel programma dei giochi tradizionali del Paese.