Quadretti inglesi nello Yucatan
Me le ricordo come se le avessi viste ieri. Sedevano dietro a cinque cavalletti da disegno ben piantati per terra. Raffinate, eleganti, con i loro capelli bianchi raccolti con cura e le loro tavolozze dei colori appoggiate su una tovaglia di lino stesa sul green della foresta pluviale.
Mancava soltanto il servizio da tè in Biscuit e il quadretto inglese era completo. «Quando invecchierò voglio assomigliare a loro» mi dico avvicinandomi alle donne. Prima di raggiungerle, le vedo puntare i pennelli oltre il loro cavalletto, come se prendessero le misure di qualcosa di invisibile ai miei occhi. I loro movimenti sono lenti e precisi accompagnati da esclamazioni tra lo stupito e l’incredulo. Taglio di traverso il sentiero per salutarle e cogliendole di spalle capisco la loro meraviglia. Davanti a noi si ergono le rovine della costruzione più fantastica che avessi mai visto. Un edificio gigantesco contornato dagli alberi della foresta. È Nohoch Mul: quarantadue metri di piramide a gradoni innalzati dagli antichi maya tra il 250 e il 550 dopo Cristo. Siamo a Coba, un enorme sito archeologico nella penisola messicana dello Yucatan, a circa quaranta minuti dalla più famosa Tulum.
Guardando l’incredibile complesso, capisco il motivo per il quale questa civiltà precolombiana sia ancora misteriosa. La piramide sembra emanare un’energia magnetica e io non riesco a togliere lo sguardo dai giganteschi blocchi in sasso impilati uno sull’altro. «Come diavolo hanno fatto - mi chiedo - a portarli fino in cima senza neppure l’ausilio della ruota?» Nel corso della loro storia più che millenaria, i Maya hanno dato vita non solo ad incredibili architetture ma pure a molteplici innovazioni. Avevano inventato una scrittura e un calendario molto accurato che consentiva loro di orientarsi nel tempo.
Comprendeva tre sistemi di datazione: uno per gli dèi, uno per la vita civile e un terzo di carattere astronomico. I Maya riuscirono persino a calcolare il tempo di rotazione della Luna attorno alla Terra. La loro agricoltura era rigogliosa grazie ad un sistema speciale che permetteva di controllare il livello di umidità nella giungla. Conoscevano perfettamente i metalli, e con l’oro e il rame creavano splendidi ornamenti. Quando non lavoravano si dedicavano al loro sport; la Pelota, un gioco che facevano con una palla di resina gommosa grande da colpire con il corpo, mai con le mani e i piedi. All’interno di Coba ci sono diversi campi con le mura oblique dove le squadre si affrontavano senza esclusione di colpi. La leggenda narra che le squadre sconfitte venissero sacrificate. Questo popolo non conosceva né la retrocessione né i play-off. Vera o falsa che sia questa storia, è tuttavia certo che i Maya avessero una certa familiarità con i sacrifici. Il teschio scolpito nel sasso che si erge al centro di uno di questi campi di pelota mi fa venire i brividi. Per gli archeologi, Coba è stata uno dei più importanti e ricchi complessi urbani della civiltà Maya.
La città contava nel suo periodo di massimo splendore - tra l’800 e il 1000 dopo Cristo - fino a cinquantamila abitanti. Una metropoli brulicante di vita e attività commerciali. Le cinque pittrici mi dicono che si può scalare il Nohoch Mul. I gradini della piramide - la più alta dello Yucatan - sono tanti: ben centoventi, molti dei quali pericolanti. Giunta in cima al volgere della sera, la mia fatica è premiata: attorno a me si stende a perdita d’occhio la foresta vergine. Da lassù si sente la presenza di Dio. Ma di quale Dio? Un senso di angoscia mi pervade. «Questo è il crepuscolo degli Dei - mi dico - dei loro Dei, profanati dalla spada insanguinata dei conquistatori spagnoli». Scendo lentamente i gradoni della piramide, convinta per un po’ di avere in mano la verità.