Editoriale

Quel selfie con la morte

Che senso c’è dietro agli autoscatti richiesti a una frastornata Maria De Filippi davanti alla bara del marito Maurizio Costanzo?
Mauro Spignesi
05.03.2023 07:00

Ora che tutto è finito, che i funerali sono stati celebrati, le polemiche si sono lentamente diradate, possiamo porci a freddo una domanda: ma che senso c’è dietro i selfie richiesti a una frastornata Maria De Filippi davanti alla bara del marito Maurizio Costanzo esposta in Campidoglio?

Quanto accaduto a Roma è davvero, come è stato osservato, il segno, il termometro di una società dove anche la morte diventa spettacolo? Sì, è possibile. Ma dobbiamo tenere conto anche del contesto, e cioè che il funerale di Maurizio Costanzo è uscito dalla sfera privata ed ha assunto una dimensione pubblica; dunque tutti si sono sentiti parte di questa celebrazione. A questo va aggiunto che uno dei primi a sdoganare la tv del dolore è stato proprio Costanzo, che ha inventato un genere crudo, spietato, umano e reale di raccontare la realtà in cui viviamo.

Ma basta ciò per dare un senso a un selfie (con bara sullo sfondo) insieme a una moglie ancora stordita dalla perdita della persona che amava? Molti commentatori, subito dopo le foto apparse sui giornali, hanno fatto notare che la gente in realtà non era andata ai funerali di Costanzo ma a vedere chi c’era e, soprattutto, a vedere da vicino De Filippi. Ecco perché, estrapolando l’evento luttuoso, la richiesta di un selfie diventa un fatto normale. Ma non è così, perché c’è un senso del limite, un’idea di ragionevolezza che deve accompagnare i comportamenti delle persone. Altrimenti si giustificherebbe anche chi si fa un selfie davanti a case teatro di omicidi, oppure sarebbe giustificata quella idiota abitudine di scattare foto agli incidenti stradali, rischiando un tamponamento o creando una interminabile colonna.

In questa ubriacatura dell’apparire a tutti i costi, di sbracciarsi per emergere dal nulla e magari crearsi una carriera, si pensa ormai di avere il diritto di bloccare chiunque in strada per fare un selfie, e con la stessa disinvoltura e mancanza di discrezione di richiedere uno scatto anche a chi sta tranquillo a prendere un caffè. L’importante è che sia «celebre». Poi, spinti da questa irrefrenabile, compulsiva voglia di dire «io c’ero», si arriva agli estremi, spazzando via il rispetto della persona e chiedendo un selfie a una vedova, prendendola in contropiede e compiacendosi per la sua gentilezza dettata probabilmente dalla mancanza di forze per reagire a una situazione imbarazzante. Va bene tutto, va bene che un funerale può diventare uno spettacolo in diretta da sei milioni di telespettatori. Ma se pure il contesto è pubblico c’è comunque un limite, un richiamo all’intelligenza e alla sobrietà che deve fare eccezione alla regola.

Perché alla fine la morte per tutti è un evento tragico, che va racchiuso in un sentimento profondamente intimo, nel dolore del distacco. Chiunque sia, celebre o sconosciuto. Davanti a quanto accade, viene in mente quanto ha raccontato Enzo Biagi: una volta, durante un comizio in un paesino della Francia, Charles de Gaulle venne interrotto da un uomo del pubblico che gli urlò: «Mon général, morte ai cretini». Lui scosse la testa e rispose secco: «È un programma troppo ambizioso».

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