L'intervista

Roger Köppel: «Ecco perché sono andato a Mosca»

A tu per tu con il consigliere nazionale UDC e caporedattore della Weltwoche, fresco di rientro dalla Russia – Un viaggio per il quale è stato ampiamente criticato in Svizzera
© KEYSTONE / WALTER BIERI
Andrea Stern
Andrea Stern
30.04.2023 06:00

A Mosca i negozi sono quasi tutti aperti, i ristoranti sono pieni, la gente passeggia per le strade in modo rilassato e sereno, afferma Roger Köppel. «Consiglio a tutti di andarci», prosegue il consigliere nazionale UDC e caporedattore della Weltwoche, fresco di rientro dalla Russia, «da quello che i nostri media dipingono come il regno del male», sottolinea il 58.enne zurighese.

Signor Köppel, come ha fatto ad andare in Russia se non ci sono più voli?
«Non ci sono più voli diretti ma basta fare scalo da qualche parte. Non è difficile».

È passato dalla Turchia?
«È una possibilità. Si può passare anche da Belgrado. Oppure andare a Kaliningrad e da lì prendere l’aereo. Insomma, le alternative non mancano».

A Mosca si è presentato come parlamentare, giornalista o semplice turista?
«Come giornalista, sono andato a parlare con la gente, a fare interviste. Mi sono presentato come Roger Köppel della Weltwoche».

Sarebbe stato facile entrare anche se si fosse presentato come giornalista della NZZ?
«Io non lavoro per la NZZ, loro hanno già un corrispondente da Mosca».

Intendevo dire, tutti i giornalisti sono benvenuti?
«Sì, chiunque può andare in Russia. A maggior ragione dovrebbero farlo i giornalisti. Fa parte dell’essenza del nostro lavoro di uscire dal proprio giardinetto e andare nel presunto regno del male per farsi un’idea con i propri occhi».

Ritengo sia importante ascoltare e cercare di capire tutte le parti in causa

Bastano pochi giorni a Mosca per farsi un’idea?
«Chiaramente non si scoprirà la verità definitiva ma si può almeno ricavarne un’impressione personale. Ritengo sia importante ascoltare e cercare di capire tutte le parti in causa».

Quindi andrà anche a Kiev?
«Ci vanno già tutti, a Kiev. Però, certo, se un giorno tutti i giornalisti svizzeri dovessero andare a Mosca, io sarei il primo ad andare a Kiev».

Secondo lei oggi i russi non vengono ascoltati?
«No. La Russia è sul banco degli imputati, viene considerata un’entità diabolica, quando parla non viene presa sul serio e spesso nemmeno ascoltata. Le posso raccontare un caso che ha dell’incredibile».

Dica.
«A Mosca ho intervistato Maria L’vova-Belova, la responsabile dei servizi per i minori del governo russo. Ebbene, mi ha detto che da quando la CPI ha emesso un mandato d’arresto nei suoi confronti, insieme a Putin, nessun media occidentale ha provato a intervistarla. Nessuno. Lei fornirebbe volentieri il suo punto di vista, ma prima di me nessuno gliel’ha chiesto».

Perché dovremmo ascoltarla?
«Perché in uno Stato di diritto nessuno ha torto o ragione a priori. Non è normale che si sia disposti ad ascoltare solo una versione dei fatti. Soprattutto in un Paese come la Svizzera, che non fa parte di alcuna superpotenza».

Ho percepito un atteggiamento aperto e cordiale. Poi sì, sono tristi di vedere questa ostilità contro la Russia, che non capiscono bene

Cosa le hanno detto i russi quando lei si è presentato come svizzero?
«Ho percepito un atteggiamento aperto e cordiale. Poi sì, sono tristi di vedere questa ostilità contro la Russia, che non capiscono bene. È vero che c’è una guerra, si dicono, ma ce ne sono sempre state... Ad ogni modo non ho mai percepito avversione in quanto occidentale».

Ci sono turisti a Mosca?
«Sì, tantissimi».

Anche occidentali?
«Ho sentito qualcuno parlare inglese, ma la maggioranza è composta da cinesi, coreani, uzbeki, tagiki, africani, altri russi... È così che oggi abbiamo una sorta di nuovo muro di Berlino a Kiev. È molto spiacevole vedere che il mondo è di nuovo diviso in due parti».

Lei dice che a Mosca la vita prosegue normalmente.
«Sì, la gente non si accorge delle sanzioni. Alcuni marchi internazionali hanno lasciato la Russia, ma molti di questi negozi hanno riaperto con un management locale. I prodotti occidentali si trovano ancora. Per esempio un imprenditore mi ha detto che riesce ancora a far arrivare dall’America i pezzi di ricambio per i suoi Boeing. Semplicemente ora deve farli passare dall’Egitto».

Quindi le sanzioni sono inutili.
«Assolutamente. Anzi, uno svizzero che vive da tempo a Mosca mi ha detto che secondo lui sono positive, perché fanno sì che la Russia non dipenda più solo dalle materie prime che estrae e vende all’estero ma investa di più nello sviluppo del suo settore produttivo».

Non sto dicendo che sia tutto rose e fiori. Un paio di attrici del teatro Bolshoi mi hanno confidato che per i giovani la situazione di guerra è pesante, i ragazzi devono andare al militare, tutti soffrono

Ok, in Russia va tutto bene, però oltre un milione di russi sono fuggiti all’estero.
«Anche questo è interessante. Vuol dire che sono liberi di lasciare il Paese, se vogliono».

E quelli che restano sono felici?
«Non sto dicendo che sia tutto rose e fiori. Un paio di attrici del teatro Bolshoi mi hanno confidato che per i giovani la situazione di guerra è pesante, i ragazzi devono andare al militare, tutti soffrono. Un traduttore che ha studiato a lungo in Germania mi ha detto che questa guerra sta rafforzando le tendenze autoritarie. Ma secondo lui è sbagliato parlare di dittatura. Lui trova ripugnante quello che si legge sui media tedeschi. La Russia è un Paese autoritario, ma non una dittatura».

Se avesse incontrato Putin, cosa gli avrebbe detto?
«Di sicuro non glielo dico a lei... (ride)».

Però lei è d’accordo che Putin ha delle grandi responsabilità in questa guerra?
«Certo, è lui che ha deciso di dare inizio all’invasione. Ma già Montesquieu diceva che bisogna sempre guardare bene chi ha sparato il primo colpo».

Chi?
«Io non ho la verità in tasca. Semplicemente, come giornalista, credo sia mio compito ascoltare anche quella parte di verità cui si dà troppo poco spazio nel nostro mondo».

Quello che voglio dire è che trovo pericolosa la narrazione troppo unilaterale con cui siamo confrontati in Occidente

Non è forse normale che gli europei simpatizzino per gli ucraini?
«Quello che voglio dire è che trovo pericolosa la narrazione troppo unilaterale con cui siamo confrontati in Occidente. Così giustifichiamo una frenesia di guerra, creiamo un clima di odio che è pericoloso perché spinge a prendere decisioni solo in base alle emozioni. Vediamo i russi solo come i cattivi, i barbari, i criminali... Così tutto diventa possibile».

Cosa intende?
«Gli americani hanno iniziato diverse guerre sulla base di menzogne. Oggi i nostri media danno per assodato che i russi abbiano commesso dei crimini di guerra. Io mi chiedo se ci sono le prove, se c’è stata un’inchiesta indipendente... Ci sono così tanti giudizi, così tante emozioni. Ripeto, io non dico di avere la verità in tasca ma sulla Weltwoche sono pronto a dare spazio sia agli ucraini, sia ai russi. Alla fine sono i lettori che possono giudicare».

Secondo lei come si può far finire questa guerra?
«Per prima cosa bisogna iniziare a parlare di pace e non sempre solo di forniture di armi».

Chi deve fare il primo passo?
«Tutti devono fare un passo verso la pace. Compresi i media, che devono essere capaci di ascoltare tutti, contribuendo così a creare una visione aperta, senza pregiudizi».

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