«Un perseguitato, gli hanno rovinato la vita»

«Una vita rovinata da una giustizia che non è mai arrivata, perché non si è voluto fare chiarezza, lasciando il campo libero ad accuse a cui mi rifiuto di credere». La ex moglie di Marco Toffaloni è forse l’unica persona in Svizzera a conoscere la sua storia. Anche se l’ha scoperta tardi, e non ama parlarne. «Persona informata dei fatti», non è mai stata indagata e chiede l’anonimato. Il «suo» Toffaloni del resto è diverso da quello descritto nelle inchieste: «Quello che posso dire è che è sempre stato una persona gentilissima, educata e buona» racconta al telefono. «Se anche da ragazzo avesse fatto qualcosa di sbagliato, posso solo immaginare che sia stato usato, come molti giovani ingenui di quegli anni, per fare lavori sporchi pilotati da altri».
Toffaloni era minorenne nel 1974, e ancora 20enne quando si trasferì in Svizzera negli anni ‘80 con l’allora compagna, conosciuta in Italia ma «non in ambienti politici». All’epoca la donna - cittadina svizzera - non era al corrente della sua militanza. «Non ne abbiamo mai parlato», racconta. «L’ho saputo solo in seguito».
Timido e riservato, del resto, Toffaloni forse lo era un po’ per natura. «Tomaten», era il soprannome affibiatogli nella cellula veronese di Ordine Nuovo, per l’abitudine di arrossire quando parlava. Qualche parola di troppo, scappatagli anni dopo con un ex camerata (poi diventato collaboratore di giustizia) gli è costata l’incriminazione. «Anche a Brescia gh’ero mi». Ora sarà il processo a stabilire, a tanti anni di distanza, se veramente sia stato lui a posizionare la bomba omicida. L’avvocato d’ufficio Michele Gallina, contattato, non ha voluto rilasciare dichiarazioni. Secondo la ex moglie il fatto che il processo si svolga a oltre cinquant’anni dai fatti «è una vergogna per la giustizia italiana e la dimostrazione che in questa vicenda c’è molta strumentalizzazione politica, e assai poca voglia di fare veramente chiarezza».

Cittadino svizzero a seguito del matrimonio, Toffaloni non rischia l’estradizione. Anche secondo la stampa italiana il processo ha una valenza sopratutto simbolica. Ma se da una parte il dolore dei famigliari delle vittime - che non si sono costituiti parte civile nel nuovo processo - grida giustizia, dall’altra «pochi forse possono immaginare cosa significhi una vita perseguitata da accuse gravissime, nell’ansia di essere raggiunti da una giustizia inaffidabile», sottolinea la ex signora Toffaloni. «È una condizione che impedisce le relazioni sociali, ostacola il percorso professionale e costringe a rinunciare persino agli aiuti e all’assistenza a cui, almeno in Svizzera, tutti hanno diritto».
Non un esilio dorato, insomma. Neanche una seconda vita spensierata. Iscrittosi a un’università d’oltre Gottardo, nei primi anni il fuggitivo avrebbe «vissuto di lavori stagionali che facevamo entrambi, per pagarci gli studi», continua la donna. «Avevamo pochi soldi ma eravamo una coppia come tante, con problemi normali». Anche se qualche ombra c’era. Prima del divorzio - arrivato «anche questo per problemi normali: l’amore era finito» - i due non ne avrebbero mai parlato. «L’ho scoperto anni dopo quando sono iniziate le inchieste», dice la donna. «Allora mi sono spiegata, a posteriori, alcune sue ansie e chiusure. Non ci sentiamo da tempo, ma per me resta una persona buona, colta e intelligente, e sono convinta della sua innocenza».
Meno convinti gli inquirenti italiani. La vicinanza di Toffaloni al «gruppo di fuoco» neofascista sarebbe ben documentata dagli accertamenti trapelati nei mesi scorsi sulla stampa. Sarebbe stato tra i membri più «arditi» del gruppo di Verona. Una foto scattata quel 28 maggio lo mostra sul luogo della strage, in mezzo alla folla. Il processo si terrà al Tribunale dei minori di Brescia, fatto più unico che raro per un imputato ormai 65enne. Anomalia tra le tante, in questa storia tipicamente italiana.