L'editoriale

Una democrazia «zoppa» se solo pochi vanno a votare

Oggi si vota ma un vincitore c'è già: l'astensionismo
Mauro Spignesi
22.10.2023 06:00

Oggi si vota. Si scelgono i rappresentanti del Parlamento federale. Ma ancora prima dello spoglio si conosce già chi ha vinto: l’astensionismo. Perché, la gente non esercita più un suo diritto? Eppure a Berna si prendono decisioni che riguardano tutti, che hanno ricadute dirette sulle famiglie, l’economia, lo sviluppo di un territorio, si discute su valori irrinunciabili, viste le guerre in Ucraina e in Medio Oriente, come la neutralità. L’Ufficio federale di statistica ha ipotizzato una partecipazione del 45 per cento degli aventi diritto. Sarebbe meglio dunque che, ancora prima di sottolineare con soddisfazione una vittoria, o calo di consensi, i partiti si interrogassero a fondo sui riflessi di questo fenomeno.

La domanda di fondo è se una democrazia matura, moderna, con radici storiche profonde, uno Stato come la Svizzera che ha superato agevolmente le sfide della storia, può continuare ad affidare a meno della metà dell’elettorato le decisioni sul suo futuro? Come si sente un consigliere nazionale o un consigliere agli Stati sapendo di essere stato eletto da una minoranza? Si tratta di una spia, di un malessere ormai diffuso, il segno di uno scollamento che rende la democrazia zoppa?

Oltre le domande si può affermare che l’astensionismo, da qualsiasi prospettiva lo si osservi, è la sconfitta della politica. E prima ancora - al di là dei risultati di oggi - dei partiti, che da tempo non sono più luoghi di aggregazione, spazio di dibattito anche aspro, soggetti capaci di selezionare e far crescere una classe dirigente, mobilitare la popolazione e trovare vasti consensi su temi e proposte importanti per la vita sociale. Ma sono diventati un aggregato di persone. L’ultima, noiosissima campagna elettorale lo dimostra: slogan, filmati, hanno martellato l’elettorato puntando innanzitutto sulle persone attraverso messaggi - spesso affidati ai social con l’illusione di arrivare ai giovani - autoreferenziali («io ho fatto… io ho detto… io sono diventato…»).

In questa babilonia, amplificata anche dal numero record di liste e candidati, pochi hanno capito davvero programmi e proposte. E qui, come hanno sottolineato diversi studi, sta uno dei tanti motivi che portano all’astensionismo: la confusione e l’incapacità progressiva dei partiti di parlare direttamente alla gente, di stimolare reazioni, di coinvolgere attorno a un programma il maggior numero di persone.

Non è un problema di oggi. Dal 1979 la partecipazione al voto per le elezioni federali non ha mai superato il 50%, quattro anni fa si era fermata al 45%, uno dei livelli più bassi degli ultimi decenni. Si dirà - e molti lo hanno detto - che tutto sommato va bene così, che la Svizzera in fin dei conti grazie alla democrazia diretta offre una prova d’appello anche a chi non si è espresso in queste federali grazie al voto popolare. E dunque anche chi si è astenuto può avere l’ultima parola. Si dice poi che non votare è una scelta politica, per chi la esercita consapevolmente. Vero, legittimo. Ma è comunque la conseguenza di un malessere, un modo di protestare per qualcosa che non va, che non si condivide. E che avviene, attraverso schede bianche o nulle, anche a Sciaffusa, dove il voto è obbligatorio.

Un tempo, quando i partiti si confrontavano e litigavano anche uscendo di tanto in tanto dal perimetro del «politically correct», della correttezza politica, la gente si appassionava. C’erano leader riconoscibili che trascinavano, mentre oggi c’è la frammentazione, le presidenze diffuse, a due o a tre, e mancano precisi punti di riferimento. A mobilitare la gente restano i temi sensibili, capaci sa soli di provocare un coinvolgimento emotivo, come è accaduto con la votazione popolare sulla legge Covid.

Contro questa deriva i rimedi suggeriti si sprecano. Gli studiosi che hanno analizzato questo fenomeno sono tuttavia d’accordo su due punti. Il primo è che a non votare sono una fetta di giovani e le classi medio basse, quelle senza una formazione superiore. E poi, che bisogna - con la scuola, ad esempio, come diceva Don Milani - offrire strumenti critici, competenze, allargare sempre più l’interesse per la politica vista come partecipazione alla vita pubblica. Comunicare con passione e con linguaggi semplici (su certe votazioni proprio la complessità attorno al tema spinge molti a rinunciare) che possono essere compresi da tutti. Solo riannodando pazientemente i fili della partecipazione si porterà nuovo ossigeno alla democrazia. A meno che non ci si accontenti. Come è stato fatto sino ad oggi.

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