Visione e sentimento, gli ingredienti di Reza Khatir
La sua angoscia è sentire rispondere un giorno uno dei suoi allievi che la fotografia l’ha inventata Bill Gates. «Mi chiedo quando accadrà, perché prima o poi accadrà». E per questo, per evitarsi una grande delusione, Reza Kathir, nato nel 1951 a Teheran, fotografo indipendente, professore di fotografia e comunicazione visiva alla Cisa (Conservatorio Internazionale di Scienze Audiovisive), durante le sue lezioni insiste che tutto ciò che oggi si può fare con uno smartphone, soltanto pigiando un tasto, è possibile perché c’è stato qualcuno prima. Prima di Bill Gates, che ha saputo sfruttare tecniche antichissime che ci hanno portato ai giorni nostri. E questi sono giorni frenetici per Reza Kathir, attualmente impegnato con il Festival fotografico europeo, un progetto culturale e artistico dedicato alla fotografia storica, moderna e contemporanea, con un approccio interdisciplinare in cui si confrontano fotografi emergenti provenienti da diversi Paesi del mondo. «Da tempo non esponevo più - dice -. In questo caso ho due sale a mia disposizione per esprimermi al meglio, per mostrare il frutto di anni e anni di lavoro. Speriamo sia l’inizio di una nuova serie. Sto anche occupandomi della stesura di un libro per i trent’anni della Cisa Film Academy».
La gioventù
Khatir ha sempre voluto fare il fotografo. Ma i suoi genitori lo mandarono in collegio a Londra per studiare ingegneria alimentare. «Un po’ per compiacerli, un po’ perché a quell’età sei influenzabile, accettai di buon grado. Anche se poi quando decisi di seguire il mio sogno papà e mamma non ebbero nulla da ridire. Anzi, furono contenti per me». Dopo gli studi in Inghilterra, a Parigi e a Milano, e esperienze ovunque, nel 1978 Khatir si stabilisce in Ticino.
La sua carriera professionale inizia come fotoreporter, lavora su vari incarichi in Medio-Oriente per importanti agenzie e riviste, espone in gallerie e musei in tutto il mondo, pubblica i suoi lavori su numerose riviste, libri e cataloghi e vince vari premi fotografici internazionali. Selezionato da una giuria di curatori e storici dell’arte nel 1985 come uno dei dodici della Nuova Fotografia Svizzera per la rivista DU; nel 1991 partecipa all’esposizione Voir la Suisse autremant, per festeggiare i 700 anni della Confederazione. Apprezzati anche i lavori eseguiti con la Polaroid, pubblicati su tre dei cinque volumi Selections della Polaroid International Collection. Nel 2001 il suo lavoro viene inserito nel volume Photography 7th Edition edito da Pearson Education, Prentice Hall. Kathir è stato anche professore di fotografia e comunicazione visiva alla SUPSI. Tornando indietro nel tempo, osserva: «Ho iniziato il mio percorso professionale utilizzando la pellicola e anche delle camere di grande formato come il Sinar 20×24. Ero interessato all’alta definizione e alla qualità».
Figlio della luna
Riflessivo, pacato, molto curioso, Khatir è un apolide, un uomo libero di mettere radici qua e là. La fotografia per lui è progetto di conoscenza, pratica di ascolto e lente per pensare. Quando gli chiediamo di definirsi con un aggettivo risponde «figlio della luna, sono del segno del Cancro. A volte sono presente a volte molto meno, come se mi assentassi, andassi altrove. Sono anche un uomo abbastanza casalingo. Con me si può benissimo parlare di detersivi, aspirapolvere, faccende domestiche varie».
Sposato tre volte, un figlio di 46 anni, in passato è stato pure un padre single. «Ma mi sono sempre arrangiato a fare tutto da solo», sottolinea. Nessun dubbio al riguardo. Forse da lì ha iniziato a maneggiare detersivi e a fare pratica con le faccende domestiche.
Tempo fa aveva pensato di fare una pausa con le mostre, di prendersi un po’ di tempo per sè. «Uno stop in realtà durato ben dodici anni, a parte qualche eccezione, come la Biennale di Venezia nel 2017», ricorda.


Le storie
Quando Khatir incontra per la prima volta i suoi studenti ogni volta chiede perché sono lì. «E loro mi rispondono per raccontare delle storie. Già, raccontare delle storie... è ciò che vorrebbero fare tutti. E si può fare anche con la fotografia, vero. Si tratta di un diverso linguaggio per comunicare, per concretizzare e condividere un pensiero. Mettiamola così: quando l’unico mezzo che hai è la parola, devi trovare qualcuno che ti ascolti. La fotografia permette di fare ciò in qualsiasi momento e luogo».
I lavori di Khatir prendono spunto soprattutto dalla memoria. «Le fotografie che espongo coprono un arco temporale di trent’anni. Sono foto molto personali, legate a ricordi, episodi, vita vissuta». Un modo di comunicare, il suo, in cui prevalgono ricerca, passione, sentimento e visione. «Un po’ come un pittore davanti a una tela bianca, quando scatto un’immagine ce l’ho già nella testa». La fotografia, dunque, è memoria per Khatir. «Sì perché si comunica qualcosa che si ha già dentro. Come dire?, forse la natura ha inventato l’uomo per avere un testimone, qualcuno che documenti. Purtroppo la nostra memoria, bombardati come siamo da continue immagini, vacilla».
Fotografia e... poesie
Se Khatir non avesse scelto questa professione sarebbe stato molto infelice, dice. «In questo contesto mi esprimo al meglio. Sono un solitario, ecco perché quando mi hanno proposto di fare cinema non ho accettato. La fotografia mi permette di lavorare con gli altri ma è sempre per un breve periodo. Emi va bene così».
Quando non scatta, Khatir scrive poesie. «Mi viene un po’ da ridere dire questo perché in Iran tutti si definiscono poeti. Sono anche meccanico per hobby, dopo aver distrutto decine di orologi adesso sono diventato più abile e capace».
Un viaggio memorabile
Khatir ha viaggiato e vissuto in molti luoghi. Ma il suo viaggio memorabile, assicura, «è andare a casa a piedi. È un’occasione per guardarmi attorno con attenzione, osservare tutto con calma. È l’esperienza più indimenticabile, in assoluto. Sono davvero presente, sono lì in quel preciso momento».
E il futuro? «Mah… fra dieci anni, condizione fisica permettendo, mi immagino sempre un entusiasta con la macchina fotografica in mano. Magari una vecchia fotocamera, come quelle che uso ancora, visto chesolo per lavoro utilizzo materiale digitale. Addirittura a volte prendo la macchinetta di plastica, quella con la pellicola. Ripeto, non si può confrontare il modo di fare fotografia di trenta-quarant’anni fa con quello di oggi. Ecco perché invito sempre gli studenti a non fare inappropriati paragoni:sono due modi di fare fotografia diversi. E allora insisto, spiego, faccio esempi, ripeto concetti a me cari… sempre nella speranza che nessuno un giorno mi risponda che la fotografia l’ha inventata Bill Gates».