Il reportage

Piccolo è bello, se non chiude

Da Airolo a Chiasso viaggio tra i negozietti che sopravvivono tra fatica e solidarietà mentre i grandi chiedono più aperture
© CdT/Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
28.05.2023 06:00

A dicembre Cesare Defanti ha preso una decisione sofferta, ma poi si è sentito subito meglio. Ha chiuso l’alimentari gestito per 120 anni dalla sua famiglia a Lavorgo, in Leventina. «In realtà lo spaccio esisteva da prima ancora» dice il 65.enne mostrando un atto notarile del 1902, con cui il suo bisnonno acquistò una «ostaria e negozio» all’ingresso del paese. «Mi dispiace per i miei concittadini: viene meno un servizio utilizzato da tutta la comunità fino ai tempi di mio padre. Ma ultimamente entrava un cliente a settimana, era insostenibile. Mi sono tolto un peso».

Non è una storia insolita. I negozi di vicinato incontrano le stesse difficoltà da Airolo fino a Chiasso: il viaggio tra le serrande abbassate o che rischiano di abbassarsi è lungo come l’agonia che il genere «alimentari» vive da almeno cinquant’anni e che la pandemia (dopo una parentesi di boom nei mesi del lockdown) non ha fatto che aggravare. Il referendum del 18 giugno sugli orari dei negozi riuscirà a porvi fine, o solo a prolungarla?

«Lasciateci morire in pace»

Difficile dirlo, ma le aspettative non sono alte. Al confine opposto del cantone Marco Ferrazzini, ex vice-sindaco di Chiasso e titolare di un negozio nel quartiere Soldini, è pessimista quanto il collega leventinese. «Lasciateci morire in pace» implora il 73.enne. Alza ogni giorno la serranda alle sei di mattina e la abbassa alle 18.30 per arrotondare la pensione e «per dare una testimonianza», dice, ma non vuole passare per eroe. «Referendum? Non cambierà niente - taglia corto - . Se permettete ho altro a cui pensare».

La diffidenza ha radici lontane ed è rivolta tanto alla politica quanto alle grandi catene di supermercati, considerate da alcuni responsabili delle difficoltà dei «piccoli». Le modifiche di legge sottoposte a referendum sono appoggiate sia dalla Disti, l’associazione della grande distribuzione, sia dalla Federcommercio: ma all’interno di quest’ultima «non mancano purtroppo le divergenze» ammette la presidente Lorenza Sommaruga. «Esiste purtroppo ancora l’idea di una concorrenza tra grandi e piccoli, ma il nostro parere è che da una maggiore flessibilità delle aperture ci guadagneremmo tutti».

Valli a rischio

Che vi siano delle differenze, in realtà, lo dicono anche i numeri. Secondo l’ultima indagine KOF del Politecnico di Zurigo a inizio anno il commercio al dettaglio ha registrato segnali di ripresa in Ticino: ma ad approfittarne, rileva lo studio, sono statisoprattuto i rivenditori medi e grandi. Non i piccoli o ipiccolissimi. Un’altra indagine condotta dalla società Crif ha confermato che gli alimentari, dopo i negozi di vestiti e le edicole, sono le attività che registrano il maggior numero di chiusure: 1.400 serrande abbassate in Svizzera dal 2009 al 2019.

In quell’anno le botteghe di paese nel Luganese erano 51 secondo un monitoraggio condotto all’epoca dal SAB per conto dell’Ente regionale di sviluppo (ERSL). Lo scopo dell’indagine «era esaminarne i bisogni ed elaborare delle iniziative a supporto di questa categoria di commercianti, puntando sulla formazione in particolare nell’ambito e-commerce e dei pagamenti elettronici» spiega la direttrice Roberta Angiotti Pellegatta. Nel frattempo sette negozi hanno chiuso i battenti. Ma le chiusure sono state compensate da altrettante nuove aperture, sottolinea Angiotti Pellegatta. «Nei prossimi mesi vorremmo rilanciare il progetto aiutando i negozianti a potenziare l’offerta di prodotti locali, le sinergie con l’artigianato e con altri negozi e servizi».

Storie di successo

A questo proposito Gianni Buzzoni, 48 anni, potrebbe fare da esempio. Originario dell’Emilia-Romagna («il cibo ce l’abbiamo nel sangue») ha aperto con la moglie un alimentari a Loreto nel 2016, poi uno a Breno nel 2021, a gennaio un terzo a Comano. In tutti i casi ha rilevato attività in pesanti difficoltà, riportandole a conti positivi. Ora ha sette dipendenti e non si lamenta. «Bisogna ripensare l’offerta, creare sinergie con il territorio, nel nostro caso lavoriamo molto a domicilio e con le scuole» spiega. Anche lui però non scalpita per le aperture domenicali o serali. «Ho visto cosa hanno fatto al settore in Italia. Chi fa il mio mestiere non ha più una vita. E a livello di incassi non cambia niente, anzi aumentano le spese».

Serrande abbassate

Nei piccoli paesi di montagna a preoccupare, più delle nuove possibilità di apertura, è il rischio di nuove chiusure. La bottega di Prato Sornico in Val Lavizzara è il simbolo di una battaglia persa da molti: «Buongiorno, oggi chiudo fino a nuovo avviso» recita tutt’oggi la segreteria telefonica con un auspicio che a posteriori è ancora più disperato. «Auguro a tutti buone feste e un felice 2021, che sia un po’ migliore del 2020». Niente da fare. Dopo svariati appelli lanciati anche a mezzo stampa la proprietaria Fabrizia Sardini ha gettato la spugna: ora lavora in una panetteria a Cevio, dove i problemi sono gli stessi. I pochi abitanti delle valli spesso preferiscono fare spesa nelle città dove lavorano: frequentano i negozi di paese «solo per ritirare i sacchi della spazzatura» fa eco dal Malcantone Ramona Rossinotti, 38 anni, proprietaria dell’unico alimentari nel paese di Pura. È merito «dei turisti» e della strada cantonale (il vicino negozio di Astano è invece regolarmente aperto). «Un po’ di passaggio c’è, soprattutto d’estate. Ma cara grazia se riesco a tirarne fuori uno stipendio», dice.

Altrove il commercio sopravvive solo come volontariato. A Monte in valle di Muggio la «Dispensa» del paese ha chiuso già nel 2008 per la concorrenza dei supermercati a valle. Inutili appelli e petizioni: più utile la costituzione di una cooperativa sociale che ha rilevato il negozio e resiste tutt’oggi. «Stiamo aperti grazie all’aiuto dei volontari, che permettono di contentere le spese per il personale» spiega la responsabile Chantal Livi, 51 anni. Ex insegnante, lavora come commessa a tempo parziale, sei mattine e due pomeriggi a settimana assieme a una collega.Dall’altra parte della valle, a Muggio, gli abitanti hanno lanciato due anni fa una raccolta fondi per impedire la chiusura della Dispensa locale. Stessa storia a Dalpe in Leventina: per rimpiazzare l’unica commerciante del paese, andata in pensione a ottobre, è stata costituita una cooperativa con donazioni versate dai residenti. La «Botèa» locale doveva riaprire ad aprile, ma la serranda è ancora abbassata (l’inaugurazione è slittata al prossimo 3 giugno).

Un’arte del passato?

A pochi chilometri di distanza è aperta invece la «bottega del Giovanni» a Faido, ma non si sa ancora per quanto. Il titolare 73.enne (Roggenbach, originario di Lucerna, ma ticinese d’adozione) è stato il fotografo del paese prima di rilevare l’alimentari negli anni ‘90. «Ho fotografato tutta la valle palmo a palmo si può dire» ricorda. «Poi sono arrivate le macchine digitali e la gente ha smesso di chiamarmi». La vendita di alimentari per Roggenbach è stata un’altra forma d’arte: «L’arte di arrangiarsi. Non ne ho mai voluto sapere di lavorare sotto padrone». Ma anche quest’arte sembra prossima a diventare una cosa del passato. Fino a pochi anni fa «il Giovanni» faceva il giro delle frazioni con un food-truck ante litteram. Adesso non ne vale la pena perché, dice, i paesi si svuotano e a Faido ci sono tre supermercati. «Finché ho la salute vado avanti, poi chiuderò. I miei figli fanno altro ed è giusto così».

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