Il reportage

Ticinesi in fuga sotto le Alpi

Sono tanti, viaggiano fino a 4 ore al giorno e non si lamentano: ecco le storie dei pendolari di Alptransit
Chi varca le Alpi per lavoro non è disposto a tornare indietro. © CdT/ Chiara Zocchetti
Davide Illarietti
04.12.2022 07:00

Sono passati cinque anni dall’apertura del tunnel di base del Gottardo, due da quella del Ceneri. Alptransit ha avvicinato il Ticino al resto della Svizzera di 45 minuti: tre quarti d’ora costati 23 miliardi di franchi alla Confederazione, ma che promettono di cambiare tantissimo nell’economia e nella vita delle persone. Come? Per capirlo - oltre a interrogare le statistiche - il modo migliore è salire sul treno e chiederlo direttamente a chi, il tunnel, lo attraversa tutti i giorni.

Ore 6.11, mercoledì mattina, stazione di Bellinzona. Sul binario 1 iniziano a raccogliersi alla spicciolata, ognuno nel settore prenotato. Giovani e meno, uomini e donne, tutti con bagagli leggeri e cappotti pesanti: «di là» ci sono 4-5 gradi in meno, l’alba arriverà tra un’ora. Quando loro saranno nel cuore della montagna, 2.450 metri sotto la luce del sole.

Difficile contarli, per contribuire «a occhio» a colmare la penuria di dati. Secondo l’Ufficio cantonale di statistica (Ustat) sono circa un migliaio i pendolari ticinesi che lavorano a nord delle Alpi. In attesa del treno per Basilea ci sono tra 70 e 100 persone: ma i pendolari del Gottardo non hanno scritto in faccia il loro via vai giornaliero . Si mischiano agli studenti, ai viaggiatori per diletto, a una numerosa scolaresca diretta in Svizzera interna. Forse hanno il volto un po’ meno stanco, per l’abitudine. Forse è solo un’impressione.

Treni più pieni

Ore 6.16: il treno arriva puntuale e già mezzo pieno, i posti liberi scarseggiano. Parte due minuti dopo, alle 6.18. All’interno i «frontalieri» ticinesi si riconoscono meglio: aprono i laptop e iniziano a lavorare. Qualcuno guarda un film, legge il giornale, chiacchiera con i colleghi: molti si conoscono anche solo di vista e lo stesso vale per il personale delle FFS. «Con l’apertura del tunnel vediamo tutti i giorni molte più persone» racconta un controllore. «Se andate in prima classe ve ne accorgerete».

Sembra di stare in un ufficio: un co-working su rotaia, su ogni tavolino un computer acceso. Gli habitué non risparmiano sul biglietto pur di viaggiare comodi e portarsi avanti con il lavoro. «Su tre ore di viaggio di solito riesco a lavorarne 2.45» racconta Stefano, quadro di Swisscom e veterano della tratta. Abita a Bellinzona e da 25 anni attraversa il Gottardo «almeno tre volte a settimana» cioè sei contando anche i ritorni. «Con la pandemia abbiamo aumentato il telelavoro, faccio avanti e indietro solo due giorni a settimana» racconta.

Un altro miglioramento è il tempo di percorrenza: 45 minuti in meno vuol dire, nel caso di Stefano, arrivare a casa alle 8 anziché alle nove di sera. Lo svantaggio è che i compagni di viaggio sono aumentati di numero e non è sempre una cosa positiva. «Quando si fa una riunione a distanza o una telefonata di lavoro, c’è il problema della privacy» osserva Stefano. «Ho imparato a essere discreto ed evito di parlare ad alta voce di dati sensibili, ma non tutti hanno la stessa accortezza».

Quando ho iniziato pensavo di avere avuto un’idea geniale
Patrick

La giornata-tipo

Un po’ di confusione, soprattutto il lunedì e il giovedì - «i giorni di pienone» - è il prezzo da pagare per una lunga serie di vantaggi che, da cinque anni a questa parte, hanno portato sempre più ticinesi ad affrontare fino a 4 ore di viaggio per lavorare a Zurigo (171 persone nel 2019) ad Argovia (154) ma anche a Zugo (151), Berna (120). «Quando ho iniziato pensavo di avere avuto un’idea geniale» racconta Patrick, 40.enne luganese che, due volte a settimana, prende il bus da Castagnola alle 5.44 per partire al binario 4 di Lugano alle 6.03. «Ho scoperto che in realtà il treno era pieno di persone che avevano avuto la stessa idea» racconta. «Ma questo non cambia la sostanza delle cose».

L’idea rimane buona se non geniale: Patrick arriva in ufficio alle 8.20 di mattina (dopo un cambio a Zurigo), torna a casa alle 19.00 circa come tanti lavoratori ticinesi - sono 117 mila quelli che pendolano all’interno dei confini cantonali (Ustat, 2019) - ma guadagna il 30-40 per cento in più. «Dopo gli studi ho sempre vissuto e lavorato in Svizzera interna in campo assicurativo, come anche mia moglie - spiega -. Quest’anno nostro figlio ha iniziato le elementari e ci siamo detti: o torniamo ora, o mai più».

«Lavorare in Ticino? No grazie»

Stipendio e carriera sono le ragioni per cui i pendolari ticinesi non si sognano nemmeno di tornare a lavorare «in patria». Clima, lingua e vita sociale i punti forti del Ticino: almeno quelli più citati dal piccolo campione intervistato da La Domenica in 1 ora e 53 minuti di viaggio tra Bellinzona e Zurigo. Quattro su sei hanno iniziato a pendolare dopo l’inaugurazione della galleria di base, nel 2017.

«Vivere in Ticino sì, lavorarci no»sintetizza Gerardina, 46.enne di Carabbia che fa l’assistente medico in uno studio sulla Limmat. In Ticino guadagnerebbe 2 mila franchi in meno al mese. «Ho una paga straordinaria e un datore di lavoro fantastico» spiega con occhi quasi sognanti. «Con l’orario continuato sono a casa per cena. Lo faccio da quattro anni ma avrei dovuto pensarci prima». Discriminazioni sul lavoro? «Nessuna. A Zurigo nessuno guarda da dove vieni, i pendolari sono tantissimi».

La mobilità inter-cantonale è la norma in effetti oltre Gottardo. In Argovia lavora fuori cantone il 55 per cento per cento della popolazione, a Bienne il 49 per cento, a Nidwaldo e Svitto il 45 per cento. In Ticino appena l’1,5 per cento dei lavoratori residenti valicano ogni giorno i confini cantonali, secondo l’Ustat. Di questi oltre un terzo (607 persone nel 2019, il 35 per cento) lavorano nella vicina Mesolcina. Eppure gli stipendi nella S vizzera italiana sono il 18 per cento sotto la media nazionale, sempre secondo l’Ustat.

Mendrisiotto tagliato fuori

Un maggiore scambio con la Svizzera interna potrebbe avere anche un «effetto collaterale» anti-dumping, e portare a un rialzo delle retribuzioni in Ticino. Marco Romano, consigliere nazionale del Centro e a sua volta pendolare frequente tra Mendrisio e Berna (ci va due giorni a settimana) come membro della Commissione parlamentare sui trasporti da tempo si batte per potenziare i collegamenti nord-sud. «Non si tratta di sottrarre professionisti al territorio ma di renderlo maggiormente attrattivo e permettere a ticinesi spesso anche molto qualificati di rimanere o tornare a vivere inTicino» afferma. Il Mendrisiotto potrebbe colmare il «gap» dall’anno prossimo se il Consiglio degli Stati dovesse approvare - settimana prossima - una mozione di Romano per far fermare i treni Intercity anche a Mendrisio.

Nel mio settore gli stipendi zurighesi sono superiori del 50 per cento rispetto a quelli ticinesi
Nicola

Affitti più bassi

Per ora il Sopraceneri si trova in una posizione avvantaggiata. Da Bellinzona i tempi di percorrenza sono minori e i prezzi immobiliari contenuti hanno spinto diverse persone a trasferirvisi. Il reddito pro-passeggero nel treno che sfreccia sotto il Gottardo è decisamente maggiore rispetto a un regionale qualsiasi, e questo significa un maggiore potere d’acquisto da far valere in Ticino. «Il costo delle abitazioni a Zurigo è più alto del 50-70 per cento rispetto a Bellinzona» calcola a spanne Nicola Reggiori, 40 anni, informatico di Giubiasco che dopo una vita lavorativa a Zurigo ha deciso di trasferirsi nella Turrita, mantenendo l’impiego sulla Limmat. «Volevo comprare casa, ma per trovare prezzi accessibili avrei dovuto allontanarmi dalla città e fare comunque un’ora di treno o più. Ho colto l’occasione e sono tornato in Ticino».

Anche per lui la scelta è stata dettata da ragioni sociali - «gli amici, i parenti, il Rabadan», elenca - e insieme da calcoli economici. «Nel mio settore gli stipendi zurighesi sono superiori del 50 per cento rispetto a quelli ticinesi. Ho sfruttato questo vantaggio per acquistare una casa grande, a due passi dalla stazione, che a Zurigo non avrei mai potuto permettermi». Ora i prezzi anche a Bellinzona sono aumentati, afferma, perché «complice la pandemia «tante persone hanno avuto accesso al telelavoro e questo rende le trasferte meno frequenti e più sopportabili».

Effetto pandemia

La pandemia è stata l’occasione della vita ad esempio per Simone, 44 anni, veneto sposato con una ticinese conosciuta a Zurigo. «Abbiamo avuto un figlio da poco, e l’anno scorso abbiamo fatto il passo» racconta. «Al costo di un monolocale sulla Limmat abbiamo preso in affitto una casa famigliare a Riazzino, a metà strada tra la famiglia di lei e la stazione di Bellinzona». Simone prende il treno alle 5.55 e arriva in ufficio a Baden (AG) alle 8.20. Torna a casa alle 19.00. Ma questo avviene una volta a settimana perché nel suo settore (vendita di macchinari per centrali elettriche) il lavoro da casa è ormai la norma. «Durante il primo lockdown ho chiesto ai miei superiori se potevo trasferirmi facendo home-working quattro giorni su cinque. Hanno accettato». A cercare lavoro in Ticino non ci pensa. Anche per lui, significherebbe rinunciare a un terzo dello stipendio.

Ma i soldi non sono tutto e lo dimostra il caso di Rachele, bellinzonese 41.enne: non beneficia di smartworking e va a lavorare tutti i giorni alla Clinica delle donne (Frauenklinik) di Lucerna, dove è capo-sala. La paga è la stessa di un ruolo equivalente in Ticino. Ma quattro anni fa ha lasciato l’impiego all’EOC perché, spiega, era stanca dei turni di lavoro. Anziché cinque minuti ora impiega 1 ora e 20 per andare al lavoro, ma tutti i giorni torna a casa dai due figli alle 19.00. «Quando va male alle 20» assicura. «Prima era molto peggio. Ho seguito un master in gestione del personale ma non c’erano posti per la mia nuova qualifica in Ticino». Ha deciso di andarsene per vivere meglio. Alptransit fa anche questo.