Ivo Soldini: «La scultura è resistenza, come la vita»
La corte di Ligornetto è un teatro di presenze: corpi obliqui, teste vigili, folle serrate. La loro immobilità vibra come un coro sommesso. Vengono in mente i guerrieri di Qin, ma privati dell’enfasi imperiale; o certe processioni etrusche, asciutte e frontali, riemerse dalla creta. Una moltitudine interiore, tutta moderna, che scava nella fragile verticale dell’uomo. È qui, tra gesso e bronzo, che Ivo Soldini riceve e parla piano: la casa paterna — sette generazioni — è officina e riparo, con il portone che separa il mondo dall’intimità del lavoro. «Restare» non come rinuncia, ma come regola: «Ho accolto l’invito a fare il bravo provinciale», dice, con un sorriso che toglie ogni spocchia alla parola. Nel Mendrisiotto, terreno di argille che somiglia alla Toscana, l’energia sembra depositarsi: «La senti sotto i piedi», aggiunge, «come un vecchio magnete».

Tutto, per Soldini, comincia dagli occhi. L’osservazione è il suo primo strumento, lo studio più grande. «Si tratta di guardare davvero — dice — di fermarsi su un gesto, una curva, una crepa. Le cose ti parlano solo se le lasci fare». Poi vengono le visite, i maestri, gli incontri. Da giovane fu accolto da artisti ticinesi come, tra i tanti, Nag Arnoldi, Giovanni Genucchi e Remo Rossi «come un praticante», e quella fiducia, ricorda, «fu un regalo: qualcuno che credeva in te prima che tu sapessi chi eri». La perseveranza, da allora, è diventata la sua misura quotidiana: «Non bastano uno, due, tre anni. Bisogna aggiungere uno zero. A volte arrivano i risultati, a volte no. Ma se riesci a resistere, a tenere la direzione anche quando tutto si ferma, è già una forma di vittoria».

La scultura, per lui, nasce da un impulso elementare: il bisogno delle due mani. Al disegno e alla pittura — praticati da giovanissimo, tra accademia e prove «bestiarie» — si è sovrapposto il gesto tattile: prima la creta, poi il gesso; quindi la fonderia, che Soldini descrive come un luogo di pazienza e ascolto, «dove la materia chiede attenzione, non forza, e ogni passaggio ha il suo ritmo». È un mestiere che non conosce tregue: dieci, dodici ore al giorno, «ma non tutte di banco: leggere, scrivere, incontrare, progettare. L’arte non ha orari da automa; è una passione che occupa ventisette ore».
Il suo vocabolario formale è riconoscibile: figure tese, allungate, talora spigolose; inclinazioni che sembrano minacciare l’equilibrio. L’«Inclinato», tema cardine, non è una caduta né una posa: è un attimo morale, il tempo di una decisione. «L’ho visto e lo vedo attorno a me: frenesie, fratture, tensioni tra terra e cielo. L’inclinazione è il punto in cui ti chiedi se cedere o raddrizzarti». Anche nei gruppi — folle serrate nei bassorilievi, coppie che si cercano senza annullarsi — la dinamica è quella di una comunità reattiva: «Bisogna stare insieme restando indipendenti, come una catena che trasmette senza soffocare».

Ogni scultura nasce da un processo lento, quasi meditativo. «Ci vogliono anni di lavoro e di ascolto», spiega. «Chi guarda un’opera spesso vede il gesto finale, ma dietro ci sono giorni di gesso, fusioni, pazienza». La riconoscibilità del segno non è ripetizione, ma un modo per approfondire, per andare oltre la superficie: «Si torna sugli stessi temi, ma ogni volta cambiano. È come scrivere sempre la stessa parola e accorgersi che il significato non è mai identico».
Anche i pericoli di bottega fanno parte del mestiere, come un gesso di trecento chili caduto a pochi centimetri o il contrappeso di un camion che si stacca. «Succede, sì, ma fa parte del gioco. È la materia che ti misura, ti mette al tuo posto. Ti insegna che non comandi tu». Poi aggiunge: «Non c’è da riderci sopra, ma neanche da farne un dramma. L’importante è restare in piedi. E poi meglio picchiare la testa su una statua che con chi te la fa sbattere, anche solo metaforicamente».
Il rapporto con chi guarda è decisivo. «Non bisogna restare sopra la pelle, ma andarci sotto». Una sera, racconta, un importante collezionista indicò la tavola apparecchiata: «Vedi? Tutto questo è l’arte come la immaginiamo: il bianco della tovaglia, i cristalli, la forma perfetta». Poi sollevò la mano e la infilò sotto: «E questo, quello che non si vede, è l’arte vera». Soldini lo racconta con un mezzo sorriso: «Sotto la superficie, lì dove niente è lucido, ci sono le cose che contano».
Per questo la scultura, una volta entrata in casa, «resta più a lungo della pittura»: pretende impegno, restituisce tempo. Il tempo — parola che ricorre — speso nel disegno, nel gesso, nella fusione, «torna indietro quando rivedi le opere nello spazio pubblico o in una hall: è uno scambio di temporalità».

A Zurigo, nelle stanze di Villa Kornfeld dal 7 al 29 novembre, alcune di queste opere ritrovano ora una nuova voce. L’edificio, già sede delle anteprime della Galerie Kornfeld di Berna, conserva le tracce del Novecento e della sua memoria d’arte: da Picasso a Giacometti, da Chagall a Kirchner. Tra i legni levigati e gli stucchi restaurati, i bronzi di Soldini trovano una risonanza naturale, quasi familiare. «Mi piace pensare che cambiare aria faccia bene anche a loro», dice. «A volte trovano una famiglia adottiva, a volte tornano a casa». È un ritorno silenzioso, ma coerente con la sua idea di scultura come organismo vivo, capace di spostarsi, adattarsi, respirare altrove senza perdere radici.
Qui a Ligornetto, però, tutto comincia e tutto ritorna. «L’opera non è un oggetto, ma una presenza. Sta qui, ti accompagna, modula la luce. Quando entro nel cortile mi sembra che mi guardi lei», dice Soldini, accarezzando un bronzo. «Mi hanno dato tempo facendole, e me lo restituiscono quando le incontro». Le sue giornate scorrono tra letture, disegni, attese e fusioni: «Sono lavori che crescono piano, come le persone. Alcuni restano qui per anni, altri partono e poi ritornano: è il loro modo di viaggiare».
Quando parla del futuro, non cita mostre né progetti. «Non so cosa verrà, ma so che continuerò a cercare. Vorrei avere più tempo per le mie figlie, Anna ed Emma — per vederle diventare le splendide donne che sono già, ascoltarle di più, condividere le piccole cose. Il resto si farà da solo».
Poi la luce del pomeriggio scivola tra le figure del cortile: i volti di bronzo si accendono e si spengono come respiri. È l’istante in cui la scultura smette di essere materia e torna presenza: un modo, forse, di resistere al tempo restando umani.

Biografia
Ivo Soldini nasce a Lugano nel 1951. Trascorre l’infanzia tra Bellinzona e Lugano, dove frequenta il Liceo cantonale. Nel 1972–73 segue i corsi dell’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano, per poi approfondire studi all’Università Statale nelle facoltà di scienze politiche, lettere e storia dell’arte. Nei primi anni lavora sul disegno e sulla pittura, con un immaginario espressionista-simbolista popolato da figure animali e deformazioni visionarie. Dal 1975–76 si dedica alla scultura, privilegiando il bronzo ma anche l’alluminio, il gesso e la creta, mantenendo in parallelo una vasta attività grafica e pittorica.
La sua ricerca si concentra sulla figura umana e sulle sue tensioni interiori. Inizialmente alterna una via naturalistica a una più espressionista, poi trova una sintesi personale in forme verticali e compatte che raccontano l’instabilità dell’esistenza. Negli anni Ottanta sviluppa il tema dell’«Inclinato», corpo rigido e allungato che sfida la gravità; nei Novanta la materia si addensa in blocchi quasi monolitici, le superfici portano i segni del «levare», come se la forma emergesse da una lotta con la sostanza.
Espone dal 1973 in gallerie e musei in Svizzera e in Italia: tra le personali di rilievo, quelle al Palazzo civico di Bellinzona (1981), al Centro Svizzero di Milano (2001), allo Château de Gruyères (2005), alla Pinacoteca comunale Casa Rusca di Locarno (2017). Sue opere monumentali e installazioni si trovano in numerosi luoghi pubblici: Lugano (Palazzo dei Congressi, Cardiocentro), Paradiso, Bellinzona, Montagnola, Mezzovico, Horgen, nonché a New York presso la Swiss Bank Corporation.
Nel 2005 dona al Cardiocentro di Lugano settanta opere tra sculture, dipinti, acquerelli e incisioni. Nel 2017 presenta la propria collezione alla Pinacoteca cantonale Giovanni Züst di Rancate, dove espone lavori di altri artisti raccolti nel tempo, a testimoniare un dialogo costante con la scultura ticinese e con la tradizione figurativa europea.
Vive e lavora a Ligornetto, nella casa di famiglia, trasformata in atelier e giardino di sculture. Tra creta e bronzo, Soldini continua a esplorare il rapporto tra materia e anima, tra gravità e resistenza: un linguaggio riconoscibile che affonda le mani nella terra per cercare, ancora, la misura dell’uomo.

