L'intervista

Caterina Mona: «Sappiamo troppo poco di chi sta accanto a noi»

La regista ticinese ieri sera ha presentato il suo primo lungometraggio
Viviana Viri
11.08.2022 06:00

Semret, il primo lungometraggio della regista ticinese Caterina Mona, presentato ieri sera in Piazza Grande, racconta il destino di numerose donne che fuggono dal loro passato in cerca di un futuro migliore riuscendo a trattare, con uno sguardo delicato, temi come quello della migrazione e dell’integrazione. Il film, prodotto da Cinédokké in coproduzione con Cinework Filmproduction e RSI, uscirà nelle sale ticinesi dal 15 settembre. Abbiamo chiesto a Mona di raccontarcelo.

Che cosa l’ha spinta a raccontare la storia di una donna eritrea che vive in Svizzera?
«Vivo a Zurigo, in un quartiere in cui risiede una grande comunità eritrea, e questo mi ha dato la possibilità di entrare in contatto con una realtà che prima conoscevo unicamente di scorcio, soprattutto attraverso i media. Queste persone vivono accanto a noi, ma in verità ne sappiamo davvero poco. Eppure, gli eritrei sono i più numerosi tra i rifugiati accolti in Svizzera. Questo mi ha dato la spinta per raccontare questa storia, anche se per me il punto centrale del film resta la relazione che intercorre tra madre e figlia».

Una relazione, quella tra madre e figlia, che nel film è sempre presente. Perché questa scelta?
«Il film è tenuto insieme proprio da questo legame, che ritorna costantemente ed è sempre presente, quasi come fosse uno sfondo. Ho sempre cercato di tornare verso di loro, raccontando questi momenti simbiotici, le loro notti difficili. A questo ho poi aggiunto in diversi passaggi, altri elementi narrativi come l’immigrazione, la fuga dalla guerra, l’integrazione. Mi sono resa conto che questi argomenti si potevano combinare tra loro e che avrei potuto trattare anche un altro argomento che mi sta veramente a cuore: le tante ragazze che sono purtroppo vittime di violenza sessuale mentre scappano dal loro Paese».

La gestione dei traumi è infatti un tema che ritroviamo anche nel suo primo cortometraggio, Persi, presentato sempre qui al Film Festival di Locarno nell’edizione del 2015.
 «Credo che la capacità di riuscire a superare le difficoltà sia un aspetto davvero interessante dell’essere umano; e in questo film, mettendo questa capacità nella relazione che c’è tra madre e figlia, possiamo avvicinarci ai protagonisti: tutti noi siamo figli di qualcuno. Inoltre, la quotidianità e la normalità con cui si sviluppa la storia rendono questi personaggi ancora più vicini allo spettatore, anche se, chiaramente, molti di noi non hanno mai vissuto questo tipo trauma».

Come ha scelto Semret, la protagonista del film?
«Sapevo che sarebbe stato difficile trovare una donna che parlasse tigrino e tedesco e che fosse, allo stesso tempo, un’attrice. Inizialmente, avevo trovato una persona negli Stati Uniti ma a causa della pandemia di COVID non è stato possibile lavorare con lei. Abbiamo dunque cercato in Europa trovando Lula Mebrahtu. Lula vive a Londra e non parla tedesco, ma è riuscita a interpretare perfettamente il personaggio. Il momento chiave, però, è stato quando l’ho vista insieme all’attrice che interpreta la figlia, Hermela Tekleab. A quel punto, non ho più avuto dubbi: era la mia protagonista».

Il finale del film arriva del tutto a sorpresa, interrompendo quasi il ritmo della pellicola: perché questa scelta?
«Ho paura dei finali lunghi, c’erano sicuramente scene in più che avrebbero potuto chiudere alcune parti della storia, e altre che avrebbero potuto arrotondare di più la chiusura. Tuttavia, credo che un film sia come un capitolo in una vita che continua, per questo motivo per me era importante finirlo in un momento inaspettato. È un finale che vuole essere un primo passo verso un nuovo incontro tra due persone, in questo caso tra Semret e sua figlia Joe. In quell’immagine si guardano, staremo a vedere dove vanno».

Che cosa ha significato per lei poter presentare il suo primo lungometraggio a Locarno?
«È stata un’emozione grandissima, partecipo al Festival di Locarno da quando avevo quattordici anni: prima come spettatrice, poi lavorandoci. È un posto in cui mi sento a casa. Poter salire sul palco di Piazza Grande, per me, è stato un onore enorme, soprattutto con un film così intimo e che racconta una storia personale. Poterlo condividere su uno schermo così grande e davanti a così tanta gente è stato bellissimo».

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