Daisy Edgar-Jones: «La curiosità mi avvicina al personaggio che interpreto»
Daisy Edgar-Jones, classe 1998, è in assoluto la più giovane ad aver ricevuto un premio a Locarno.E un festival come questo che vuole guardare al futuro non poteva scegliere un personaggio più rappresentativo di un cinema in evoluzione che si intreccia con nuova forma di narrazione audiovisiva. Daisy Edgar-Jones infatti si è formata alla scuola di teatro (National Youth Theatre), ed è arrivata al cinema come il volto di una serie televisiva britannica di successo chiamata Cold Feet. Da quella esperienza è partita una promettente carriera nel cinema con Pond Life (che si vedrà a Locarno oggi pomeriggio), e ancora in una serie tv che l’ha consacrata come star: la miniserie Normal People, per la BBC e la piattaforma Hulu. Un’osmosi tra cinema, televisione e web che continua fino al suo ruolo da protagonista nel thriller romantico visto in Piazza Grande, Where the Crawdads Sing, ambientato nelle paludi della Carolina del Nord. Le abbiamo chiesto di parlarci di quelle emozioni e di quella esperienza.
Che cosa ha provato in quell’ambiente così difficile e quali ostacoli ha incontrato?
«Penso che la palude e l’ambiente naturale siano un vero personaggio della storia e questo ha una grande importanza anche nel libro che ci immerge in una natura lussureggiante e in uno spirito che credo siamo riusciti a catturare sullo schermo. Questo aggiunge anche un tocco di mistero alla storia perché ci si muove in un ambiente davvero pericoloso e ostile dato che si può finire nella direzione sbagliata e incontrare molti imprevisti, nonché delle creature abbastanza terrificanti (ridendo), come insetti giganti e alligatori».
Quali sono state le scene più difficili da girare?
«Credo proprio quelle in cui dovevamo recitare in esterni. Abbiamo girato in Louisiana dove violenti temporali scoppiano all’improvviso. A volte accadeva di dover sospendere le riprese anche per ore, in attesa che i fulmini si scaricassero e anche quando giravamo in interni spesso dovevamo fermarci, spegnere tutte le luci, perché i fulmini possono scatenare incendi. A volte dovevamo sbrigarci a girare certe scene impegnative prima che si scatenasse di nuovo il finimondo. È stato piuttosto impressionante».
Lei che è nata e vive a Londra, come si è posta di fronte a una lingua e a un ambiente così particolari e diversi?
«Penso che per quanto riguarda l’accento, si tratta di qualcosa che mi piace scoprire e su cui amo lavorare, così come sulle voci dei personaggi. I nostri accenti personali cambiano a seconda dei contesti, e i suoni della Carolina del Nord sono molto dolci. Perfetti per evocare un certo tipo di paesaggio. Quanto a Kya, era importante fare in modo che il suo accento suonasse autentico, non fasullo. Per quanto riguarda l’ambiente, mi è stato di grande aiuto il libro di Delia Owens (da cui è tratto il film, ndr.), che ho letto e riletto, ma non solo. Proprio il fatto di essere lì, immersa in una natura da cui non avevi scampo, tra pericoli di vario genere, percepirne i suoni e gli umori: anche questo è stato determinante».


Quali sono stati i sentimenti e le emozioni di Kya a cui si è sentita più vicino?
«Mi sono sentita vicina a lei in molti aspetti, anche perché penso che sia un personaggio in cui è facile immedesimarsi perché si può trovare qualcosa di lei in ognuno di noi, anche se si trova in circostanze molto particolari, e la sua resilienza è molto ben descritta. Però direi che il tratto che ho sentito più affine a me è la curiosità: Kya non si accontenta mai, vuole sapere tutto quello che riesce a capire. Forse anche il coraggio in un certo senso, in particolare quello di essere se stessa».
E per quanto riguarda le implicazioni femministe del personaggio, come la vede?
«È capace di prendere in mano la sua vita e questo ne fa un personaggio moderno, oltre che la ragione per cui è ostracizzata dalla maggioranza delle persone del paese. Non la accettano, la guardano con sospetto, perché non corrisponde all’immagine precostituita delle donne di quell’epoca. Negli anni Cinquanta e Sessanta, da una ragazza, ci si aspettavano dei comportamenti diversi. Per me è stato emozionante interpretare questo cammino di consapevolezza ed emancipazione, in un film incentrato su una figura di donna, anche perché ho lavorato con una équipe quasi tutta al femminile dietro la macchina da presa e nelle posizioni di comando: dalla regia, alla sceneggiatura, la produzione, la fotografia, e la musica».
Pensa che i nuovi media abbiano oggi un maggiore impatto critico sul pubblico dei film tradizionali?
«Un tempo i film erano considerati più soggetti critici. Non lo so, forse oggi ci sono molti registi che si stanno indirizzando verso format televisivi, come Lenny Abrahamson, che era stato nominato all’Oscar per Room, e ha poi raccolto un grande successo con la serie Normal People. Il digitale sta rinnovando anche il modo di fare cinema e il fatto che si lavori contemporaneamente su diversi supporti fa circolare uno spirito diverso».
Parlando di televisione, pensa che Normal People rifletta veramente le problematiche e i comportamenti dei giovani oggi?
«La serie parla di un periodo della vita in cui ci si confronta con scelte che avranno un grande impatto sul nostro futuro. Affronta il tema delle relazioni con gli altri e dell’autostima in un’età – vent’anni – in cui si comincia a capire quello che si è, a trovarsi a proprio agio nella propria pelle e si superano i conflitti tipici dell’adolescenza. Sì, penso che la serie sia abbastanza fedele al mondo che rappresenta».