Locarno75

«Douglas Sirk, uomo e regista con l’anima divisa in due»

L'intervista a Bernard Eisenschitz, curatore (insieme a Roberto Turigliatto) della retrospettiva dedicata a Douglas Sirk
Antonio Mariotti
04.08.2022 06:00

Grande nome della storia del cinema e della critica dell’ultimo mezzo secolo, specialista del cinema tedesco (Lang, Lubitsch, Murnau) ma non solo, il 78.enne francese Bernard Eisenschitz cura (insieme a Roberto Turigliatto) la retrospettiva di Locarno 75 dedicata a Douglas Sirk e il volume che l’accompagna.

Il libro che ha scritto in occasione della retrospettiva locarnese s’intitola Douglas Sirk né Detlef Sierk: un segno di continuità o di discontinuità rispetto ai due periodi, quello tedesco e quello americano, della vita del grande regista?

«Entrambe le cose. Sirk ha ripetuto spesso di essere interessato soprattutto ai personaggi divisi in due e secondo me lui stesso è uno di questi, per motivi obiettivi come l’esilio dalla Germania nazista e la volontà di scoprire un’altra cultura come quella americana. In precedenza c’era già stato il suo passaggio dal teatro al cinema, cioè da una cultura nobile a una popolare, di massa. Anche nelle sue fotografie comprese nel libro lo si può vedere come un personaggio “doppio”, per certi versi anche pirandelliano, visto che ha tradotto e messo in scena Sei personaggi in cerca d’autore negli anni Venti. Quando ho iniziato le mie ricerche però non pensavo di giungere a una simile conclusione, anche se il titolo che alla fine ho scelto era sempre tra quelli possibili. E in effetti, man mano che procedevo mi sono reso conto che lo definiva molto bene, anche perché contiene una parte di mistero e offre diverse interpretazioni».

Come si spiega il fatto che un simile personaggio sia riuscito a lavorare in Germania fino al 1937, quindi anni dopo l’avvento al potere del nazismo?

«Tra i molti motivi che lo hanno spinto a rimanere così a lungo in patria c’era la possibilità di mantenere i contatti con il figlio Klaus, nato nel 1925 da un primo matrimonio, e che gli era vietato incontrare. Finora avevo lavorato su personaggi come Fritz Lang, che avevano lasciato la Germania già nel 1933, mentre Sirk credeva veramente nella possibilità di continuare il proprio lavoro ed era convinto che il regime avrebbe avuto una vita piuttosto breve. Nello spazio di quattro anni però ha capito che non avrebbe potuto essere un regista di successo e nel contempo continuare a vivere con la sua seconda moglie che era un’attrice di origine ebrea. Queste due cose erano diventate incompatibili e allora ha deciso di partire. D’altra parte, pensava di avere un margine di libertà alla UFA, gli studi cinematografici dove lavorava che seguivano ancora un’ottica prenazista. Il suo produttore favorito aveva lavorato con Max Ophüls e con registi ebrei che dovettero lasciare la Germania a partire dal 1933. La UFA aveva quindi una certa libertà di manovra, ma l’idea - solo parzialmente irrazionale - di Goebbels, che si immaginava come un grande artista e quindi anche un grande cineasta, era quella di mettere le mani sulla UFA e ciò è accaduto mentre Sirk stava preparando La Habanera, il sui secondo film con Zara Leander che sarà il suo più grande successo in Germania. A quel punto quindi le regole cambiano completamente poiché Goebbels vuole controllare ogni dettaglio dei film, al pari di David O, Selznicj a Hollywood. Secondo me quindi, già ne La Habanera Sirk deve accettare dei compromessi e si rende conto che sarebbe stato impossibile continuare a lavorare senza accettarne molti altri. Avrebbe potuto continuare a girare film non politici e non propagandistici ma avrebbe sempre dovuto fare i conti con l’ideologia, con i buoni nordici ariani e i cattivi o i primitivi che venivano dal Sud, ecc.. Quindi a spingere Sirk lontano dalla Germania è stata la necessità di salvare la sua vita con la moglie e il suo onore di cittadino e di artista».

Tra alcuni suoi conoscenti nasce però l’idea di girare un piccolo film contro il nazismo. Il tema è molto ben visto a Hollywood, dove all’epoca esistevano molti piccoli Studios

Un atteggiamento malvisto quando è arrivato a Hollywwod, dove è stato preso per un collaborazionista. Come è riuscito a scrollarsi di dosso questa etichetta?

«Al suo arrivo ha firmato un contratto con la Warner Bros. che è durato appena tre settimane, poi ha anche preso in considerazione l’idea di non girare più film e di cambiare vita mettendosi ad allevare galline. Non aveva molti amici tra gli emigrati tedeschi che contavano, come Ernst Lubitsch o William Dieterle. Tra alcuni suoi conoscenti nasce però l’idea di girare un piccolo film contro il nazismo. Il tema è molto ben visto a Hollywood, dove all’epoca esistevano molti piccoli Studios e il progetto di Hitler’s Madman va così in porto grazie a un uomo d’affari svizzero che ci ha messo un po’ di soldi, un piccolo studio dove lavorava anche Edgar Ulmer, uno scrittore yiddish e un altro, Emil Ludwig, di cui Sirk aveva messo in scena i testi in Germania, senza dimenticare la furbizia di scegliere degli attori bravissimi che costavano poco. Un casting molto intelligente che ha contribuito al successo del tutto inaspettato del film che è poi stato acquistato dalla MGM che incaricò Sirk di rigirare alcune scene, un fatto molto raro nella Hollywood dell’epoca. E grazie a questo successo Sirk ha potuto ricominciare a lavorare come regista».

Inizia così un decennio di grandi successi con la Universal, ma come si spiega la decisione di abbandonare tutto all’apice del successo, nel 1959, a soli 62 anni?

«È stata una decisione radicale e presa in pochissimo tempo. Dopo aver finito Imitation of Life, Sirk lascia Hollywood per un viaggio che dura diversi mesi, poi un anno e alla fine non ci torna più. Non è nemmeno ripassato da casa per prendersi dei documenti e del resto nel suo ricchissimo archivio depositato alla Cineteca di Losanna c’è pochissimo materiale sul suo lavoro negli Studios californiani».

Qual è l’aspetto più moderno del cinema di Sirk, quello che può renderlo interessante per chi non lo conosce ancora?

«Rivedendo i 40 film di Sirk per scrivere il mio libro ci ho pensato molto, perché mi sembrava un cineasta molto connotato con lo spirito degli anni Cinquanta. Mi sono invece reso conto che la sua opera è legata a un’idea di onestà morale che interessa tutti i suoi personaggi, anche quelli più feriti o marginali. Non si tratta di personaggi frequenti nei film di genere ma nell’opera di Sirk spesso l’equilibrio della narrazione poggia su di loro trasformandoli nel fulcro della storia. Si potrebbe dire che sono loro i suoi “maestri di vita” che lo hanno spinto a prendere decisioni importanti, come quella di lasciare la Germania, per ragioni morali più che politiche».

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