L'intervista

«Finalmente un'alternativa dopo anni di eroi bianchi, abili ed eterosessuali»

L'industria del cinema sta cambiando e il caso della nuova sirenetta Disney ha fatto molto discutere - La professoressa dell'USI Gloria Dagnino: «Le polemiche? Punti di vista estremamente conservatori»
Michele Montanari
21.09.2022 15:25

Ariel non avrà più capelli rossi e la pelle chiara: la prossima sirenetta sarà interpretata dall’attrice afroamericana Halle Bailey. Nonostante le accese discussioni sulla nuova opera live action della Disney, l’industria cinematografica da tempo sta percorrendo una strada diversa, fatta di inclusione e di maggiore attenzione verso minoranze rimaste nel dimenticatoio per decenni. Affrontiamo l’argomento con la professoressa Gloria Dagnino, responsabile del Servizio pari opportunità dell'USI, nonché titolare dei corsi Interdisciplinary approaches to gender and diversity e Strategies in Screen Industries.

La nuova versione della sirenetta Disney è solo l’ultimo esempio di una maggiore attenzione al tema dell’inclusione: perché e come sta avvenendo questo cambiamento nell’industria cinematografica?

«Il processo di allargare e diversificare le rappresentazioni cinematografiche si sta sviluppando molto negli ultimi anni. Una grossa spinta in questo senso è stata data dall’arrivo di piattaforme come Netflix, Disney Plus, Paramount, eccetera. Tra queste c’è una maggiore concorrenza e dunque la necessità di offrire contenuti nuovi, proprio per differenziarsi tra loro: si cerca di sperimentare con contenuti differenti. La tendenza a diversificare deriva sicuramente da un’evoluzione culturale, che però va a braccetto con una componente di tipo economico-produttivo. Oggi, da un punto di vista quantitativo, ci sono le condizioni per avere maggiori contenuti: la produzione di film e serialità è decisamente aumentata rispetto agli anni passati. L’offerta è molto cresciuta e con essa sono aumentate le possibilità di diversificare i modelli rispetto a quando invece i titoli prodotti erano più limitati. A questo incremento di contenuti si accompagnano il discorso sull’evoluzione culturale e il fatto che finalmente ci si è resi conto del peso che le rappresentazioni proposte dai media di intrattenimento hanno sulla società».

I media plasmano il nostro immaginario…

«I media possono scegliere se portare avanti pregiudizi e rappresentazioni stereotipiche o, viceversa, contrastare gli stereotipi e i modelli discriminanti. L’industria odierna è dunque caratterizzata da questo doppio binario: produttivo e culturale. Disney, in questo senso, ha un ruolo molto importate. Da un lato perché è un player assolutamente dominante nell’industria dell’intrattenimento, non solo audiovisivo, ma anche di tutti quei prodotti cosiddetti ancillari legati ai film (merchandising, parchi a tema, licenze, partenariati, ecc…). Avendo un peso enorme sul mercato, è nella posizione di poter proporre dei nuovi modelli. La compagnia di intrattenimento ha creato un vero e proprio “universo Disney” e può, in un certo senso, permettersi di “rischiare” con modelli diversi, dopo che per decenni ha contribuito a creare quello stesso immaginario che ora sta cercando di diversificare».

La maggioranza di noi è abituata a potersi riconoscere nei modelli che vengono rappresentati. Modelli che a noi sembrano assolutamente naturali, quando in realtà non lo sono.

Dove sta il confine tra l’aspetto socioculturale inclusivo e il marketing? Il caso della nuova sirenetta ha fatto parecchio rumore, che per Disney significa pubblicità.

«Le due cose non sono minimamente antagoniste. Disney è un’azienda che mira al profitto, non è un’associazione di beneficenza. È una multinazionale globale con fatturati elevatissimi. Anche qui c’è un doppio binario: Disney, come tutte le altre imprese che operano nel settore della creatività, produce immagini e simboli. Parliamo di prodotti culturali, ma c’è anche una parte di riflessione su cosa può piacere al pubblico, che non è una questione puramente accademica, è volta a creare profitto. Cultura e profitto non sono necessariamente in contrasto: si può fare profitto in tanti modi. Si possono sfruttare immagini che qualcuno considera negative o si possono diffondere modelli positivi. Questo vale per tutte le aziende che operano nel settore dell’immaginario».

La scelta di un’attrice afroamericana sta facendo molto discutere: ci sono resistenze verso questa diversificazione in atto nell’industria. Perché è così difficile da accettare?

«Perché noi bianchi occidentali abbiamo più difficoltà a comprendere l’importanza che la rappresentazione audiovisiva ha per le persone. La maggioranza di noi è abituata a potersi riconoscere nei modelli che vengono rappresentati. Parlo di quei modelli che a noi sembrano assolutamente naturali, quando in realtà non lo sono: queste rappresentazioni sono frutto della cultura e della società e in quanto tali è giusto che evolvano. Veniamo da decenni in cui diverse categorie di persone non hanno avuto visibilità, queste non si riconoscono nei modelli passati e, invece, hanno il diritto di costruire un proprio immaginario, vedendo anche in produzioni mainstream personaggi che assomigliano a loro».

Come mai non è avvenuto lo stesso con Django Unchained di Quentin Tarantino? Anche lì è stato cambiato il modello originale, ossia un cowboy bianco perfettamente in linea con gli stereotipi occidentali…

«È un caso molto diverso: il personaggio da cui Tarantino ha preso spunto non era radicato nell’immaginario collettivo come la sirenetta di Disney del 1989. Django non era un personaggio di cui tutti avevano una rappresentazione in mente, mancava un legame immediato. La differenza sta nel peso della familiarità che Ariel ha in una fetta della società. Le persone che oggi porteranno i propri figli a vedere il live action della sirenetta, sono le stesse che da piccole hanno visto il film d’animazione».

Non riesco a non giudicare le polemiche come frutto di un punto di vista, se non apertamente razzista, estremamente conservatore.

Dunque, la polemica è scoppiata perché siamo troppo legati a quelle che reputiamo «tradizioni»?

«Sinceramente, non riesco a non giudicare le polemiche come frutto di un punto di vista, se non apertamente razzista, estremamente conservatore. Non stiamo parlando di un personaggio storico che viene rappresentato in maniera completamente diversa, facciamo riferimento a un personaggio immaginario, una sirena, che non ha corrispondenza nella realtà. Un personaggio che già nel film animato Disney era stato profondamente modificato rispetto alla fiaba di Hans Christian Andersen (pubblicata per la prima volta nel 1837, ndr). Questo avviene con tutti i film Disney tratti da fiabe che hanno storie truculente e spaventose se viste con gli occhi di oggi. La sirenetta, nel film di animazione, non è più quella di Andersen. È basata su quel concetto, ma la storia è completamente diversa e la rappresentazione di Ariel è stata inventata. Probabilmente i capelli rossi sono stati introdotti per esigenze estetiche: il rosso stava meglio con la palette di colori dei fondali marini, quindi con prevalenza di blu e verde. Andersen, essendo danese, verosimilmente aveva immaginato capelli biondi per il suo personaggio. Dunque, fatico a non vedere del conservatorismo molto forte e anche un po’ negativo in queste polemiche. Coloro che si oppongono al casting dell’attrice per il nuovo live action, semplicemente non vogliono che vengano toccati i simboli con cui sono cresciuti. Ma questi simboli a cui sono legati sono anche frutto del fatto che minoranze etniche e tante altre categorie di persone sono state sistematicamente escluse dalle rappresentazioni mainstream. Finalmente vengono integrate anche loro: tante bambine possono vedere una protagonista che è simile a loro».

Non si può leggere una carenza di idee nell’industria cinematografica? Perché non ripartire da una sorta di «anno zero» della creatività e inventare brand con nuovi eroi, più adatti ai nostri tempi?

«Il discorso su come i grandi Studios lavorano e quali sono le storie che prevalgono è molto ampio. Produrre film è un’impresa costosa ed estremamente rischiosa, proprio per il discorso della grande competizione tra i vari player citata in precedenza. Non è una novità degli ultimi anni, è da decenni che la maggior parte dei film in cima al box office sono remake, sequel o opere derivanti da un universo pre-esistente, come ad esempio quello della Marvel. Sfruttare queste franchise è una strategia produttiva puramente economica: si rischia meno e si lavora su universi narrativi che sono già testati, che hanno già avuto successo. Disney ha una library di contenuti e personaggi amplissima: attingendovi, la multinazionale monetizza le proprie proprietà intellettuali e corre meno rischi al botteghino e in generale sui mercati di sfruttamento. È per questo che vediamo la versione di animazione diventare live action, oppure sequel, remake e reboot».

 Proveniamo da almeno un secolo di produzione culturale che è dominata dalla figura dell’eroe, maschio, bianco, abile ed eterosessuale.

Cosa pensa della cosiddetta cancel culture e delle accuse di censura all’industria cinematografica? Quando HBO Max rimosse dalla sua libreria il film Via col vento scoppiò un’accesa polemica come per la sirenetta

«Il concetto di cancel culture, per quanto mi riguarda, non esiste. Nel senso che noi proveniamo da almeno un secolo di produzione culturale che è dominata dalla figura dell’eroe, maschio, bianco, abile ed eterosessuale. Parliamo di decenni di rappresentazioni mainstream basate su un modello molto standardizzato. Questo è stato il canone con cui siamo tutti cresciuti finora e da esso non ci si muoveva, almeno per quanto riguarda i prodotti mainstream. Ora che ci sono alternative che si allontanano da questo modello, e parliamo comunque ancora di numeri minoritari rispetto a una tendenza che è stata dominante per secoli, non si può gridare alla cancellazione della cultura o alla censura, perché finalmente vengono proposti modelli diversi. Chi grida alla censura sta implicitamente affermando che l’unico modello accettabile sia quello tradizionale. Detto questo, Via col vento non è stato censurato: chi vuole vederlo lo trova ancora. Quello che è successo, e succede tuttora con i film sulla piattaforma Disney, è l’aggiunta di disclaimer che segnalano come in alcune opere siano presenti delle rappresentazioni culturali che oggi vengono considerate razziste, sessiste, o altro. Questo è un’operazione informativa più che censoria, proprio perché siamo di fronte a una tendenza nuova, che prima non c’era. È anche fisiologico che ci siano un dibattito e dei tentativi, anche imperfetti, ma che segnalano un’attenzione che mancava».

Il tema dell’inclusione interessa anche i festival cinematografici: recentemente il Locarno Film Festival ha introdotto un premio per la migliore interpretazione che va a sostituire quelli di migliore attore e migliore attrice, mentre agli Oscar ultimamente trionfano solo film che trattano determinate tematiche…

«Quella del Locarno Film Festival è una decisone artistica ed è assolutamente legittima. Perché dobbiamo dividere attrici e attori? Stiamo parlando di un settore in cui il fatto di essere uomini, donne o non riconoscersi in un sistema di genere binario, non va a inficiare la performance dell’interprete. Non credo venga intaccato nulla, non stiamo parlando di un settore in cui la divisione dei generi ha veramente un fondamento biologico, come può avvenire in una gara sportiva. Chi mantiene la divisione lo fa più per ragioni di organizzazioni di un festival: è una questione di assegnazione di più premi o la possibilità di attirare un maggior numero di celebrità. Per quanto riguarda le tematiche, eventi cinematografici come gli Oscar, ma anche Locarno, Venezia o Cannes hanno a che fare con produzioni artistiche che sono frutto del loro tempo. I registi e le registe raccontano la realtà dal punto di vista di un artista che vive il suo tempo: il fatto che ci siano sempre più storie che riflettono su tematiche quali la diversità e l’inclusione è un segno della società che cambia. I festival da una parte rispecchiano la produzione artistica contemporanea, dall’altra guardano all’avanguardia. Fa parte della loro missione: raccontare il presente, intercettando le nuove tendenze, e lanciare uno sguardo verso il futuro».