La forza delle immagini, la realtà della guerra

Iran, Israele, Libano, Palestina. Il quadrante mediorientale brucia. E le fiamme illuminano gli schermi di Locarno. La 78. edizione del festival ha rischiato - e rischia tuttora - di essere ricordata per alcune polemiche sulle iniziative di solidarietà nate attorno alla tragica situazione di Gaza. Ma, a ben vedere, dovrebbe essere giudicata da un punto di vista completamente diverso: dalla capacità di raccontare, come nessun altro, ciò che accade in quelle terre devastate dalla guerra. La forza narrativa delle immagini proiettate a Locarno è stata dirompente. Soprattutto quando, quelle immagini, non erano finzione. Fiction. Ma realtà.
Il festival ha avuto la capacità e il coraggio di accostare voci provenienti da tutti i Paesi in guerra. Ha saputo allargare lo spettro di osservazione su un trauma che scuote il mondo. Bisogna riconoscerlo.
Così come si deve dare atto di una scelta autoriale non scontata. Prendiamo, ad esempio, Eran Kolirin, il regista israeliano di Some Notes on the Current Situation, presentato fuori concorso. Sei episodi in bianco e nero che si posano sulla realtà come annotazioni marginali, oblique, lasciando che sia lo spettatore a colmare i vuoti. Una «tragicommedia filosofica» interpretata da un gruppo di studenti di recitazione di Tel Aviv, girata in soli tredici giorni con mezzi ridotti e libertà assoluta.
Nonostante la leggerezza apparente, il film è profondamente legato al contesto in cui è stato girato: Israele, Paese nel quale oggi fare cinema è sempre più difficile. «Negli ultimi due anni ho la sensazione che tutto stia crollando - dice Kolirin al CdT -. È un periodo di transizione verso qualcosa che non so cosa sarà, ma che non mi sembra positivo. C’è paura, c’è rabbia, e un clima che non favorisce la creazione artistica. Se commetto l’errore di aprire le notizie la mattina, finisco per non riuscire a scrivere nulla: resto seduto a fumare, pensando alla morte. Eppure, proprio in momenti così, il bisogno di esprimersi diventa urgente. A volte è l’unico spazio di libertà che resta: scrivere, girare, creare. Forse è proprio in questo che si trova la verità dell’arte».
Ritratto autentico
Abbas Fahdel ha portato invece a Locarno un documentario straordinario: Tales of the Wounded Land, un potente ritratto del Libano contemporaneo che fa seguito a Tales of the Purple House, girato due anni fa. «Quando sono iniziate le prime esplosioni vicino al nostro villaggio, ho iniziato a filmare senza alcuna intenzione precisa. Ho solo documentato - dice Fahdel al CdT -. Sono un regista, ho una telecamera, il mio telefono. Pensavo, come tutti, che la guerra sarebbe durata pochi giorni o settimane. Invece è andata avanti per quindici mesi. Durante quel tempo ho accumulato materiali, e man mano il film prendeva forma nella mia testa. È bastato seguire l’ordine cronologico: i primi bombardamenti, lo sfollamento, il ritorno. Al momento del rientro, avevo già il film in mente: dovevo solo montarlo. Non saprei dire quante ore di girato avevo. Potevo fare un film di dieci ore. Quelli che si vedono all’inizio e alla fine sono villaggi di confine rasi al suolo. Il nostro era a 20 km, colpito solo in parte. Ma tutti quelli a uno o due km dalla frontiera sono completamente distrutti».
La fiction, aggiunge Fahdel, «sa sempre di falso, è appunto finzione. Preferisco la realtà, la verità, che sono sempre molto più ricche. Mi ispiro all’iraniano Abbas Kiarostami, che è sempre autentico».
Tornano allora alla mente altre immagini. Quelle di With Hasan in Gaza, del palestinese Kamal Aljafari, presentato in concorso internazionale. Il film, basato su immagini girate all’inizio del secolo nella Striscia, è adesso un monumento alla memoria di un luogo che non esiste più.
«Ho girato questo materiale quasi 24 anni fa, quando studiavo a Colonia - ha raccontato Aljfari al CdT -. L’ho portato con me e me ne sono completamente dimenticato. In realtà, non l’ho mai guardato, fino a un anno fa. C’è qualcosa di misterioso nello scoprire questo materiale oggi, in un tempo di erosione così profonda. Come se questo film fosse rimasto lì, in attesa per 24 anni di essere scoperto. Tutto nella vita ha un senso, le cose accadono per una ragione. E questo film arriva in un momento in cui Gaza viene cancellata e il suo popolo ucciso ogni giorno. Questo documento di luce è stato per me una scoperta ma anche un sollievo. E per tutte le persone che hanno lavorato al film è stato un modo per esistere nell’ultimo anno, nel buio che stiamo attraversando. È strano mostrare il film al pubblico. I registi usano spesso questa metafora: è come dare alla luce un bambino. In questo caso, si dà alla luce una vita che non esiste più. Una vita che ormai esiste solo sullo schermo».
Oltre le barriere ideologiche
Raccontare è anche un modo per sopravvivere. Lo spiega bene Fahdel. «Il fatto di girare un film su una guerra che sto vivendo mi aiuta a superare la prova - dice il regista libanese -. Senza macchina da presa, se fossi rimasto chiuso in casa a subire la guerra, sarebbe stato terribile. Quando bombardano, invece di nascondermi, prendo la macchina da presa e vado a filmare. Questo mi protegge. Perché prende il sopravvento l’aspetto professionale. Penso all’inquadratura, alla registrazione del suono. Capisci cosa intendo? Divento spettatore di quello che vivo. È un modo per proteggermi».
Ritorna, prepotente, il senso della forza delle immagini. Che da sola supera anche le barriere ideologiche, i preconcetti. «Oggi sembra che, qualunque cosa tu faccia, debba essere spiegata, giustificata - dice Kolirin -. Sembra inevitabile dire se sei a favore o contro qualcosa o qualcuno. Ma a me non interessa fare dichiarazioni che rischiano di essere fraintese o ridotte a slogan: preferisco che il film parli da solo. È un’esperienza, non un volantino politico. Se lo spettatore esce dalla sala e ha capito qualcosa di più - o anche solo ha percepito un’emozione nuova - allora il dialogo c’è stato e questo per me basta».
Il linguaggio delle immagini, quando queste non sono manipolate, è universale. E segno di libertà. «Ci sono sempre persone che ascoltano, giudicano, reagiscono. Non viviamo in un vuoto. Bisogna trovare un linguaggio che permetta di comunicare davvero, anche in un contesto ostile. Io non faccio proclami: racconto storie, creo situazioni in cui il pubblico può percepire quello che non viene detto esplicitamente. In questo senso, la libertà è anche la capacità di aggirare le barriere».