L'anniversario

Quell'amore mai esploso tra Marilyn e Locarno

Il 4 agosto 1962 moriva, tragicamente, la diva più amata dello star system USA - Soltanto nel 2013 il Locarno Film Festival decise di proiettare il documentario sugli ultimi giorni dell'attrice
Dario Campione
04.08.2022 06:00

«Marilyn Monroe Kills Self». Non succede spesso che un giornale dedichi la prima pagina a un’unica notizia. Il 6 agosto del 1962, il New York Mirror lo fece: decise di aprire con quattro sole parole, stampate a caratteri cubitali. «Marilyn Monroe si uccide». Sotto, altre due righe. Secche, precise. «Found nude in bed... Hand on phone... Took 40 pills»: trovata nuda nel letto, la mano sul telefono, 40 pillole ingerite. L’icona della bellezza, la donna più desiderata, la musa del presidente JFK aveva deciso di farla finita. Forse dopo aver chiamato, per un’ultima volta, proprio la Casa Bianca. Gli istanti finali della vita di Marilyn sono stati scandagliati e sezionati per decenni. Libri, film, inchieste giornalistische si contano a migliaia. Ma il mistero rimane. Com’è inevitabile. A sessant’anni di distanza, quando la memoria collettiva potrebbe iniziare a vacillare, il mito si rinnova. Nella forma più ovvia. Il cinema. Sui grandi schermi americani è infatti in arrivo Blonde, il film di Andrew Dominik prodotto da Netflix e tratto dall’omonimo romanzo di Joyce Carole Oates (uscito peraltro da pochi mesi anche in italiano per La nave di Teseo). A interpretare Marilyn è l’attrice cubana Ana de Armas, la Bond girl che ha affiancato Daniel Craig nel suo quinto e ultimo 007 (No Time to Die). La Motion Pictures Association of America (MPAA) ha vietato Blonde ai minori assegnando al film il rating NC-17. «Sono rimasto sorpreso - ha ammesso Dominik intervistato da Variety - Certo, non sono rappresentazioni di una sessualità felice, piuttosto si tratta di situazioni ambigue. Se Blonde fosse uscito qualche anno fa, a ridosso del boom del #MeToo, sarebbe stato una espressione di tutta quella roba. Ma nel periodo in cui ci troviamo al momento, penso che le persone siano piuttosto incerte sui vari limiti. Il mio è sicuramente un film con una certa moralità. Ma naviga in acque piuttosto ambigue, perché non credo che sia un qualcosa di preconfezionato e dalle linee nette come potrebbero volere le persone. In realtà, tutti potrebbero trovarci qualcosa di offensivo per loro». Poche settimane fa, ospite in Svizzera del Neuchâtel International Fantastic Film, Joyce Carol Oates è tornata sui motivi che, nel 2000, l’avevano spinta a scrivere le oltre 700 pagine della biografia romanzata di Marilyn. Una donna che «ha guadagnato una fama incredibile nel mondo, ma non un’identità con cui vivere. Nel momento in cui Norma Jeane perde la propria identità, entra in un mondo di icone - ha spiegato la scrittrice in una successiva intervista - le persone sono attirate verso di lei e lei verso di loro: non per la loro realtà, ma per la personalità pubblica. È un mondo di superfici scivolose, alleanze e rapporti che non durano, dove nessuno conosce o ha a cuore Norma Jeane, ma sono solo attratti da Marilyn Monroe». Nel suo bestseller, Oates dedica molte pagine alla tragica fine della diva. E alla sua morte in solitudine. «Mentre Marilyn invecchiava, le venivano ancora assegnati questi ruoli che avrebbe interpretato una giovane stellina e si sentiva umiliata. Non puoi continuare a interpretare questa bionda stupida quando ti avvicini ai 40 anni. Alcuni dicono che si sia suicidata. Non lo penso necessariamente. Penso che potrebbe essere morta per qualcosa di simile all’estrema disperazione». Il Film Festival di Locarno ha atteso molti anni per dedicare uno spazio adeguato della sua programmazione all’attrice californiana. Segno, probabilmente, di un amore mai sbocciato tra la rassegna ticinese e la diva delle dive americane. Nel 2013, all’interno della sezione Histoire(s) du cinéma, venne infatti proiettato al Rialto Marilyn Monroe, The Final Days, documentario del 2001 firmato da Patty Ivins su soggetto di Monica Bider. Un lavoro, in realtà, molto ben fatto, arricchito da interviste inedite alle persone più vicine a Marylin nel periodo finale della sua vita e dalle testimonianze d’archivio di decine di attori e attrici - alcuni dei quali davvero celebri - ma anche di personaggi della cultura, dello sport e della politica statunitense, compreso lo stesso JFK. Giocando in particolare sulle immagini di repertorio, il documentario di Ivins (oggi interamente scaricabile online dal sito di YouTube) riesce a raccontare quasi in dettaglio gli ultimi mesi della vita di Marylin: i suoi amori tumultuosi, la droga e la dipendenza dall’alcool, la depressione e il conseguente allontanamento dal set dell’incompiuto Something’s Got To Give, diretto da George Cukor e co-interpretato da Dean Martin e Cyd Charisse, film di cui sono presentati spezzoni del montaggio assemblato.  

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