Se «I cannibali» di Liliana Cavani sanno ancora scuotere le coscienze

Quattro anni fa, in occasione della retrospettiva a lei dedicata dalla Mostra internazionale del nuovo cinema di Pesaro, Liliana Cavani raccontò come «due elementi infantili e segreti» riaffiorassero costantemente nella sua vita e nel suo lavoro. Questi eventi, «remoti e irriferibili, sono i pomeriggi domenicali, ma anche feriali, trascorsi con mia madre, oppure da sola, al cinema di corso Fanti, a Carpi», la città natale; e «la vista di un cumulo di cadaveri nella piazza che poi si chiamerà dei Martiri: 16 uomini e ragazzi uccisi per rappresaglia dai repubblichini» di Salò.
Dai pomeriggi fumosi - in tutti i sensi - nella sala di corso Fanti nacque la grande passione per il cinema e la conseguente carriera di regista, «in anni non proprio inclini ad affidare la cinepresa a una donna. Mia mamma adorava le storie raccontate dai film: era la voglia di evadere dal paesello e dai problemi familiari con il romanzo popolare. Perché il cinema nasce così, popolare, indipendentemente dal fatto che sia realizzato più o meno bene», racconta Cavani.
La scena dei morti in piazza, invece, riaffiorò, prepotente, nel suo secondo lungometraggio, I cannibali (1970), rielaborazione distopica dell’Antigone di Sofocle, in cui i cadaveri degli oppositori di un regime tirannico erano lasciati insepolti per ammonire la popolazione. «Anche quella era una cosa che non potevo raccontare a nessuno, perché avevo disobbedito allontanandomi troppo da casa: la mattina presto uscivo di corsa per andare a trovare un mio amico lì vicino, ma quel giorno vidi più in fondo uno strano via vai e andai verso la piazza: c’erano i repubblichini che cingevano con i fucili spianati questa pila di cadaveri. Intorno, tanto sangue che si stava asciugando. Non facevano passare nessuno, ma io, che ero piccola, mi intrufolai: fu una visione agghiacciante».
I cannibali torna sullo schermo oggi a Locarno - nella sezione Histoire(s) du Cinéma - in versione restaurata in 4K. Una scelta coraggiosa e, per certi versi necessaria, in un festival che sempre ha avuto l’obiettivo di accompagnare il pubblico dentro la storia del cinema.
Ispirato, come detto, all’Antigone di Sofocle, il film racconta la lotta di una ragazza contro I'autorità che impedisce di seppellire i corpi dei ribelli uccisi dalla polizia, corpi lasciati esposti affinché servano da monito per i cittadini. La ragazza, unica ribelle in una città piegata dalla dittatura, è aiutata soltanto da un giovane che parla una lingua sconosciuta. Il loro esempio non sarà vano, altri lo seguiranno. «I cannibali sono i giovani che rifiutano la civiltà se essa dev’essere quella del regime vigente - ha spiegato la regista - e pone con forza e passione il conflitto tra pietà e legge, radicato nel contesto storico e politico di quegli anni nei quali veniva posto da più parti il tema della umanizzazione del potere».
Conosciuto forse meno del Portiere di notte o di Francesco, I cannibali è tuttavia un film molto amato e apprezzato anche dalla critica non militante. Undici anni fa, sul New York Times, James Lewis Hoberman lo definì «affascinante». Dopo aver rilanciato la sua produzione nazionale con il neorealismo, scrive Hoberman, «l’industria cinematografica italiana creò star internazionali e autori stellari, esportando una serie di generi popolari: il peplo spada e sandalo, il giallo intriso di sangue, l’impertinente commedia e gli spaghetti western». A metà degli anni ’70 la «gloria era svanita», ma alcune opere lasciarono comunque il segno. E una di esse fu proprio I cannibali di Liliana Cavani, in cui «la futura Bond girl Britt Ekland appare nei panni di Antigone, una giovane donna con stivali go-go che si ribella all’ordine omicida cercando di assicurare un funerale per il fratello assassinato» ed è aiutata in questo «da un enigmatico hippie, Tiresia (Pierre Clémenti)».
Al di là di «una forte somiglianza con il teatro controculturale dell’epoca», conclude Hoberman, il film della regista emiliana, oggi 92.enne, conferma in ogni fotogramma la sua qualità di opera capace di innescare riflessioni non banali. E rimane memorabile per la colonna sonora gospel di Ennio Morricone» e per la canzone finale di Don Powell, «provocatoria è quasi indimenticabile: “Chiamatemi cannibale, non morirò! / Cannibale selvaggio, non morirò! / Cannibale pazzo, non morirò! Cannibale pagano, non morirò! / Sono felice, selvaggio e libero - come un uomo era destinato a essere una volta!”».