Fabio Merlini: «La via del Bene nell'orrore della guerra»

Mai più di oggi, con una guerra che scombussola l’Europa, risulta difficile dire: prendiamola con filosofia. Eppure è alla filosofia – che, etimologicamente parlando significa «amore per la saggezza» – che ci si deve rivolgere per orientarsi in tempi bui. E quindi come si pone la filosofia di fronte ai dilemmi etici imposti dal conflitto in Ucraina? L’abbiamo chiesto a Fabio Merlini, filosofo e direttore della Scuola universitaria federale per la formazione professionale (SUFFP) della Svizzera italiana.

Fabio Merlini, che domande si pone, come filosofo, di fronte all’irruzione della guerra?
«La stessa che viene sollevata nel capolavoro di Tolstoj, l’incomparabile epica moderna che ha per sfondo più o meno il lasso di tempo intercorso tra la prima campagna napoleonica di Russia e la tragica disfatta dell’esercito francese nel 1812. È mai possibile una vita ispirata al Bene, e ai principi morali che ne discendono, in un mondo imperfetto? È la domanda che poniamo a noi stessi quando ci interroghiamo su cosa fare quando, nelle sue diverse incarnazioni, il Male irrompe sulla scena del mondo, spezzando o incrinando i disegni delle nostre vite, le nostre aspettative, i nostri patemi, il trantran quotidiano (sempre più raro, a dire il vero)».
E quali risposte si dà, di fronte a questo scenario?
«La solidarietà nei confronti delle vittime è già una risposta, poiché soccorrere vuol dire prendersi cura, prestare attenzione, sentirsi responsabili, essere solleciti. E nello sconquasso della catastrofe, questa è la prima, immediata risposta che è chiamato a dare chi, dalla posizione comunque privilegiata dello spettatore, osserva sconcertato, incredulo e indignato quanto accade: una fragilissima testimonianza del Bene contrapposta alla devastazione del Male. Esattamente quanto osserva Calvino nel romanzo Le città invisibili, laddove intravede l’Inferno non chissà dove o chissà quando. Ma sempre qui e ora, attorno a noi, in noi, per mezzo di noi, invitando poi il lettore a imparare a riconoscere ciò che nella quotidianità delle nostre esistenze, per quanto flebile, marginale, trascurato, riesce a sottrarsi al Male (il Paradiso, per restare nella metafora), così da farcene poi carico, permettendogli di acquistare spazio, di diffondersi e, infine, di contagiarci».
In che modo?
«La solidarietà nei confronti delle vittime è un aspetto di questa premura. Anche se ha una natura fragilissima, poiché non appena ci chiediamo cosa fare al di là delle sue manifestazioni (i soccorsi assicurati ai profughi, l’accoglienza, le misure ritorsive, le voci di condanna), vediamo subito come la domanda sollevata nelle pagine di Guerra e Pace per voce di Pierre Bezuchov continui risonare drammaticamente in tutte le posizioni di legittima prudenza, di opportunismo, di semplice paura inerente a un possibile allargamento mondiale del conflitto o, catastrofe delle catastrofi, alla sua degenerazione nucleare. Fin dove può spingersi l’azione ispirata ai principi morali in un mondo imperfetto? Dove deve fermarsi il sostegno alle vittime, la loro protezione e difesa, quando è in campo una forza folle che dichiara di non volersi arrestare dinnanzi a nulla, anche a costo di scatenare la distruzione totale? Può il pacifismo affermarsi come una strada percorribile, in un mondo in cui la guerra, in tutte le sue possibili varianti, è sempre ovunque?»
Lei cosa risponde?
«Se la crisi pandemica ci aveva posto dinanzi a una prova generale di solidarietà; la guerra di aggressione della Repubblica federale russa (di fatto, del suo Presidente) nei confronti dello Stato dell’Ucraina (di principio, della sua dirigenza politica ma, di fatto, di tutta la popolazione), ci pone oggi dinanzi a una prova generale di democrazia. Con, al centro di entrambe, il perno comune della libertà. Nel primo caso come compatibilità di un diritto (consustanziale alla democrazia), rispetto a una serie di doveri (consustanziali al vivere in società); nel secondo come rivendicazione disperata di autodeterminazione, nel momento in cui una volontà estranea, supportata dalla forza scatenata delle armi, interviene ad invalidarla».


In ballo, mi par di capire, c’è la tenuta dell’idea stessa di democrazia…
«Sì. È inutile ripetere ora che, così come accade per ogni conflitto, anche in questo caso molti nodi vengono al pettine. E allo stesso modo è del tutto inutile osservare ora quanto le vittime che sfilano martoriate sui nostri schermi stiano pagando anche per i nostri errori del passato, per la nostra cecità più o meno opportunistica dinanzi a una degenerazione autoritaria del potere, chiara da tempo. Dunque: non solo per la prepotenza paranoica di uno statista criminale. È una lezione che dovremo semmai tenere presente quando verrà il momento. Ci sono, infatti, situazioni in cui recriminare non serve assolutamente a nulla. Mentre la lezione che proprio ora non dovremmo trascurare concerne il senso stesso della libertà e della democrazia, per noi. Che cosa viene così tragicamente allo scoperto? Che per quanto fragile, vituperata, persino considerata ormai démodé, rispetto alle grandi sfide cui siamo confrontati (crisi ambientale, crisi della giustizia redistributiva, crisi del potere decisionale, crisi della rappresentanza, crisi della sovranità statuale), la democrazia non è un valore negoziabile, né un ferrovecchio da mandare all’incanto, come avevano voluto farci credere i sovranisti di ogni dove e le destre più ottusamente nazionaliste, entrambi fino a ieri fieri di poter vantare una Santa alleanza con i leader autoritari e antidemocratici affacciatisi sull’arena politica negli ultimi decenni, dentro e fuori dell’Europa».
Che lezione possiamo trarne?
«Dalla sconclusionata e immatura difesa di una libertà del tutto autoreferenziale, dove ad alcuni pareva un eroico e coraggioso atto di ribellione civile scendere in piazza contro le restrizioni imposte dall’emergenza pandemica e dove pareva addirittura eversivo rifiutarsi di portare le mascherine sanitarie, siamo stati drammaticamente catapultati al cospetto dell’immane dramma della libertà calpestata, usurpata, violata; della democrazia schiacciata, per quanto si tratti di una democrazia imperfetta e non certo priva d’ombre; di una resistenza disperata quanto orgogliosa e tenace, questa sì del tutto eroica. E perciò tale da suscitare una ammirazione e una partecipazione in grado di mettere in serio imbarazzo chi della libertà, della democrazia e della solidarietà, ancora solo ieri, aveva la stessa considerazione che è possibile tributare a un qualsiasi bene barattabile sul mercato del più volgare opportunismo elettorale o al più asociale egoismo personale».
A chi si riferisce, in particolare?
«Per esempio, ma solo perché altamente paradigmatico, a Matteo Salvini. Fa quasi tenerezza osservarlo che si guarda in giro con gli stessi occhi sgranati e spaesati di uno scolaretto somaro, redarguito ancora una volta per non aver fatto i compiti, quando nel corso di una recente visita lampo in Polonia il sindaco della città di Przemysl gli consegna una maglietta con l’effigie del Presidente russo, alludendo alle sue irresponsabili spacconate al Parlamento europeo nel 2015. Ma c’è poco da scherzare anche nel caso in cui a parole si difende la libertà e la democrazia nel loro più nobile significato, per poi sottobanco fare affari con chi mostra quotidianamente di infischiarsene di quei valori grazie ai quali rimiriamo compiaciuti il nostro livello di civiltà e il nostro superiore senso della giustizia e della moralità».
Torniamo alla domanda più importante: che fare?
«Trarre dall’Inferno pezzi di Paradiso è quanto fa ogni giorno chi, anziché affrontare il mondo in quanto riserva infinita di risorse con cui arricchirsi, costi quel che costi in termini ecosistemici e di vite umane, lo accoglie all’interno di una relazione che nella cura trova la sua ragion d’essere. Oggi vediamo bene, poiché il conflitto accade sotto i nostri occhi, quanto l’essere capaci di questa premura costituisca una forza, un potentissimo farmaco, un lembo di Paradiso dove attenuare per quanto possibile sofferenze e ingiustizie. La parola “profugo” non ha più lo stesso gusto amaro e talvolta indigesto di prima dell’invasione dell’Ucraina, quando veniva strillata nei comizi elettorali dei capipopolo nazionalisti e sovranisti o quando con immenso imbarazzo era fatta oggetto delle inconcludenti riunioni di un Consiglio europeo incapace di assicurare risposte eque al problema dell’accoglienza dell’immigrazione (chi, come, secondo quale ripartizione)».


Come mai?
«Abbiamo avuto bisogno di riconoscerci nelle vittime per imprimere una virata al nostro modo di guardare i senza diritti, gli spogliati di ogni speranza: quelle para-persone che, come scriveva Jhalèvi Hirsch, alla domanda “c’è qualcuno, è permesso?” continuano a sentirsi rispondere seccamente “no, non c’è nessuno!”. Durerà? E poi, la solidarietà deve darsi un limite? Possiamo spingerci sino al punto di mettere in gioco la nostra stessa sicurezza? In un mondo imperfetto, dove vediamo comunque come il Bene riesca insinuarsi nelle maglie del Male (accade in ogni gesto di altruismo disinteressato), possiamo accettare l’idea di un Paradiso armato?»
Esatto. È corretto escludere per principio una risposta armata all’aggressione bellica, in base al principio che non sarà mai la violenza delle armi, giusta o sbagliata che sia, a farci uscire definitivamente da una situazione di guerra?
«Per quel pacifismo che deve il suo impeto nobile alla cultura dell’illuminismo la risposta è no, senza se e senza ma. In quanto erede di un modo di intendere la civiltà come effetto di uno strappo irreversibile che si lascia alle spalle la natura bruta, il pacifismo ispirato ai Lumi pensa l’uomo civile in quanto effetto di un radicale atto di emancipazione dove la libertà si afferma finalmente sulla necessità: è lo Spirito che signoreggia la Natura, che se ne distacca per poter avviare una Storia di gloriose conquiste civilizzatrici, rispetto a quella ripetizione infinita che è la vita colta nella circolarità ripetitiva della realtà naturale. Da questo punto di vista la guerra, in quanto espressione della logica naturale (la forza bruta senza rimorsi del predatore che si avventa sulla preda), è l’espressione di una regressione che non conduce da nessuna parte, se non a ripristinare in seno alle società umane lo stato di natura: la libertà divorata della necessità. Qui, io credo però che vi sia un equivoco enorme».
Perché?
«Questo strappo rispetto alla necessità naturale, questo dominio della libertà sulla necessità, esiste solo nei racconti con i quali abbiamo rappresentato con fierezza la nostra superiorità rispetto alla Natura, la nostra “seconda natura” di esseri spirituali capaci di un governo totale su istinti, passioni, bisogni, appetiti. Nei fatti, la natura bruta, con la sua forza cieca, non è mai alle spalle, non è mai neutralizzata una volta per tutte da una emancipazione che ne disarma la potenza, per far posto all’altezza olimpica dello Spirito. Irene e Marte sono congiunti nel più solido dei matrimoni, in una unione invidiabile capace di neutralizzare qualsiasi crisi coniugale. Quando il Male – che è il modo in cui lo Spirito legge le manifestazioni più cruente della Natura – torna a minacciare i nostri progetti, le nostre aspirazioni, le nostre vite non siamo al cospetto di una regressione. Siamo nel pieno della condizione umana, che ha la sofferenza, la violenza, la sopraffazione come marca inaggirabile del suo continuo darsi, disfarsi e rifarsi. Per questo, solo dal punto di vista dello Spirito, cioè del nome con il quale abbiamo voluto rappresentare, orgogliosi di noi stessi, la nostra superiorità rispetto alla Natura, possiamo dire che il pacifismo sia eticamente superiore all’atteggiamento di chi, nella posizione della preda o del testimone di una aggressione, decide di imbracciare le armi o di sostenerne risolutamente l’azione».
Aiutare le vittime? Sì, ma...
Fino a che punto l’Occidente può armare la resistenza degli ucraini? «Dobbiamo ragionare sui valori che siamo davvero disposti a mettere in gioco»
Ma la sua non è una posizione del tutto teorica? Che differenza c’è, in uno scenario di aggressione, tra la legittima difesa e il contrattacco? È etico farsi ammazzare senza reagire? È etico lasciare ammazzare il tuo prossimo senza alzare un dito?
«Non porrei i termini in questo modo. Il comportamento etico non lo puoi misurare attraverso una serie di regole generali valide per ogni stagione. È sempre la prima volta, quella rispetto a cui, se ne senti il bisogno, ti poni la questione dell’agire morale. Non esiste nessun decalogo che possa orientarti sempre e ovunque con sicurezza e pertinenza, nonostante ciò che vorrebbero farci credere i dogmatismi di ieri e di oggi. Vale anche rispetto alla tragedia attuale. Possiamo vedere le persone morire come cani senza intervenire in modo risoluto, cioè mobilitando esplicitamente a livello internazionale una forza materiale difensiva superiore in grado di neutralizzare la potenza di fuoco offensiva che sta distruggendo l’Ucraina? Possiamo limitarci a lavorare ai fianchi l’aggressore, in modo da fiaccarne gradualmente l’aggressività? Oppure dobbiamo confidare negli effetti a lungo termine di una posizione improntata al pacifismo? Dipende sempre dai valori che siamo disposti a mettere in gioco. Ma soprattutto dalle conseguenze cui siamo disposti ad andare incontro. Dipende cioè dallo spazio che occupiamo».
Cosa intende dire?
«Che non c’è nessun velo di ignoranza che tiene: chi viene bombardato ci rivolge una richiesta di aiuto disperata, quindi disposta a tutto, alla quale possiamo rispondere solo in una certa misura, poiché la sua disposizione non è la nostra. L’empatia ha suoi limiti strutturali di esercizio, così come l’eroismo funziona, quando funziona, su altre basi. L’indecidibilità della situazione a cui siamo confrontati è straziante. Per un verso sentiamo che non è corretto tenersi in disparte. D’altra parte, capiamo che un coinvolgimento diretto potrebbe far precipitare ulteriormente la situazione nel disastro totale. Le posizioni degli spettatori si polarizzano, come è accaduto con l’emergenza dettata dalla pandemia virale. Non c’è da meravigliarsene: è la messa in scena sociale della lacerazione individuale delle coscienze».


In questo caso?
«Mi spiace dirlo così brutalmente, ma alla sua domanda precisa se è etico lasciare che il tuo prossimo venga massacrato senza alzare un dito, rispondo che in questo caso lo è: nel senso che possiamo certo, ed è quello che sta facendo l’Occidente, alzare un dito, ma non porgere la mano oltre un certo limite. Voglio dire: non in modo ufficiale. Allo stesso modo, le dico che il pacifismo non corrisponde a una posizione etica superiore rispetto a chi pensa, oggi, al riarmamento sovrannazionale dell’Europa. Perché dobbiamo accettare l’idea che la guerra, e la sua presenza incancellabile nelle vicende umane, non è il prodotto di una amministrazione delle relazioni umane incapace di assumere la nonviolenza come habitus interiorizzato del proprio agire. È piuttosto una manifestazione di quella logica stessa dell’esistenza, per cui vita e morte, dolore e piacere, salute e malattia, ricchezza e povertà, giustizia e ingiustizia sono sempre l’una la condizione dell’altra, l’una l’emanazione dell’altra, l’una la ragione dell’altra».
In conclusione?
«Se questo è il quadro generale, molte delle nostre convinzioni, con il loro automatismo nella distribuzione dei meriti e dei demeriti etici, vanno ripensate. Non dovremmo infatti mai scordarcene, quando ci compiacciamo della nostra superiorità morale rispetto agli avversari, che ciò che siamo, ciò di cui approfittiamo o ciò che ci è negato (benessere, ricchezze, piacere, giustizia, onori) poggia su una contraddizione che nessuna emancipazione, nessuno strappo, nessuna civiltà riuscirà mai a emendare. Irene non è il superamento di Marte. È piuttosto la sua pietà. Come diceva l’immenso Hegel: contradictio est regola veri, non contradictio falsi. Questa contraddizione, che è la vera regola dell’esistenza, esprime tutta la tragicità della condizione umana. E oggi, lo ripeto, essa è la principale ragione delle nostre coscienze lacerate dinanzi a quanto accade».