I figli «invisibili» degli anni di piombo

I cosiddetti «anni di piombo» sono un tema ricorrente, ma solo di rado affrontato con lucidità e cognizione di causa, nella storia del cinema italiano dell’ultimo trentennio. Tra i tanti titoli, citiamo quelli che hanno lasciato il segno più incisivo: La seconda volta (1995) di Mimmo Calopresti con Nanni Moretti e Valeria Bruni Tedeschi e Buongiorno, notte (2003) di Marco Bellocchio con Roberto Herlitzka, Maya Sansa e Luigi Lo Cascio. Padrenostro di Claudio Noce, presentato in concorso all’ultima Mostra di Venezia, si inserisce a pieno titolo in questo filone offrendo però alcune caratteristiche inedite. Prima di tutto il fatto che si tratta di un film basato su uno spunto autobiografico. Il regista, nato a Roma nel 1974 e qui al suo terzo lungometraggio, è infatti il figlio del vicequestore Alfonso Noce che nel dicembre del 1976 sopravvisse a un attentato terroristico sferrato dai Nuclei armati proletari (NAP), uno dei tanti gruppi armati attivi in quel periodo. Oltre quarant’anni dopo quei tragici fatti, che segnano tuttora la sua esistenza, Claudio Noce decide di raccontare, attraverso i suoi occhi di bambino, quel padre, la cui figura «forte, magnetica, eroica, - come scrive lui stesso - assurge ad archetipo di un’intera generazione di uomini in cui le emozioni erano percepite solo come debolezza ed obbligate ad essere camuffate in silenzi». Un personaggio che in Padrenostro rimane per lo più opaco e a cui Pierfrancesco Favino (premiato a sorpresa come miglior attore al festival veneziano) offre in primo luogo una fisicità spesso maldestra ma teneramente efficace.
Con gli occhi di Valerio
La vicenda, a partire dalla scena-chiave dell’attentato, è vista con gli occhi di Valerio (il biondissimo e bravissimo Mattia Garaci), dieci anni, che viene tenuto all’oscuro di tutto dalla madre ma che, diversamente dalla sorella minore, è già abbastanza grande per rendersi conto della dimensione del dramma che ha colpito lui e la sua famiglia. Sbeffeggiato dai compagni di scuola («Tuo padre non è un eroe, è un infame!» gli urla dietro uno), Valerio vive una solitudine forzata. Un giorno però, nel giardinetto dove gioca a pallone da solo, compare dal nulla Christian (Francesco Gheghi, giovane attore da tenere d’occhio). Per due terzi del film, Christian appare agli occhi dello spettatore come un amico immaginario di Valerio: il frutto della sua fantasia, il compagno di giochi, ma soprattutto l’incarnazione di una libertà totale, trasgressiva e per molti versi pericolosa, che gli è del tutto preclusa. A un certo punto però, dopo che Christian fa la sua sorprendente apparizione nel casale calabrese dove Valerio trascorre una breve vacanza estiva insieme ai nonni e ai genitori, l’amico immaginario diventa reale e per di più portatore di un‘identità scomoda ed oscura che sarà svelata del tutto solo nelle scene finali.
Faticosa battaglia interiore
Questa metamorfosi del personaggio di Christian, scivolamento drammaturgico che può lasciare perplessi, è il sintomo di quella «faticosa battaglia interiore» che il regista confessa di aver combattuto durante tutta la lavorazione del film. Un continuo confronto fra i ricordi personali, supportati da un meticoloso lavoro di documentazione storica, e la favola dell’amicizia e della riconciliazione tra quei bambini «invisibili», vittime sacrificali delle opposte scelte di campo dei genitori. Un doppio binario narrativo che non sempre funziona in maniera fluida in Padrenostro, nonostante le ottime intenzioni dell’autore e le convincenti prestazioni di tutti gli interpreti. Ed è un vero peccato poiché, concentrandosi sulla dimensione autobiografica sua e della sua famiglia, Claudio Noce avrebbe potuto firmare uno dei pochi, se non addirittura il primo film italiano sugli anni di piombo in grado di raccontare una vicenda estremamente privata e personale che non aveva alcun bisogno di un consolatorio messaggio supplementare.