KO e riscatto di un pugile

Già passato in Piazza Grande durante l'ultimo Festival di Locarno, Southpaw promette uno sviluppo originale ma dopo la svolta che arriva a mezz'ora dall'inizio rientra nei binari più classici del cinema sulla boxe come metafora dell'esistenza; caduta e resurrezione, perché nella mitologia del vecchio sogno americano è sempre data una seconda opportunità. Jake Gyllenhaaal interpreta Billy Hope (attenzione al cognome: speranza), campione mondiale imbattuto; viene dai bassifondi e ha guadagnato una fortuna, ha una splendida villa, una bella moglie (Rachel McAdams), un'amata bambina. Quando durante una rissa un proiettile vagante uccide la moglie, Hope si ritrova impreparato ai colpi della vita, non sa reagire e perde tutto: soldi, carriera, amici e gli levano anche l'affidamento della figlia. Da qui, cioè da zero, comincia il percorso di riscatto del pugile. Il suo unico appiglio è il saggio allenatore di una palestra di periferia (Forest Withaker), dal quale impara che non bisogna solo saper incassare ma anche cominciare a schivare qualche colpo. Siamo dalle parti di film leggendari come Lassù qualcuno mi ama, Toro scatenato e la saga di Rocky. Il regista Antoine Fuqua ne capisce di boxe e si vede nelle sequenze dei combattimenti, ritmate, crude, a volte in soggettiva, dove la potenza dei colpi riduce i volti a maschere disfatte. È anche un regista che sa imprimere alle sue storie un andamento adrenalinico (Training Day, The Equalizer), ma le finezze psicologiche non sono il suo forte e il percorso di risalita dagli inferi di Gyllenhaal si riduce a schematiche tappe di tutti i passaggi canonici di questo genere filmico. Senza guizzi.