L'intervista

«La canzone italiana è figlia della tradizione francese»

Intervista a Giangilberto Monti sul rapporto tra musica francese e cantautorato italiano.
Mauro Rossi
23.03.2023 07:00

La musica italiana ha sempre guardato a quella francese in modo distratto, preferendo – salvo qualche eccezione - concentrare le proprie attenzioni su ciò che proviene dall’Inghilterra e dagli USA. E a torto, sostiene Giangilberto Monti in quanto buona parte di ciò che si ascolta in italiano da sessant’anni a questa parte, specie nel settore cantautorale, è figlio della «chanson» transalpina. Un profondo legame che l’artista e scrittore milanese spiega nel libro Gli anni d’oro della canzone francese (ed. Gremese) che, in coppia con il suo coautore Vito Vita, presenterà venerdì sera alle 20.30 alla Filanda di Mendrisio. Lo abbiamo incontrato.

Giangilberto Monti
Giangilberto Monti

Anzitutto da dove nasce questo suo profondo amore per la canzone francese?

«Tutto è iniziato alla metà degli anni Novanta quando ho iniziato a lavorare sul repertorio di Boris Vian, di cui sapevo poco, se non le cose più popolari come Il disertore. Al quale, per altro, mi ero avvicinato grazie a Riccardo Pifferi, un autore e regista che lavorava con Jannacci e Paolo Rossi, secondo il quale Vian era la persona più vicina possibile al mio mondo musicale in virtù di una comune curiosità per gli incroci stilistici, le contaminazioni musicali, l’ironia… da lì poi, è partito il tutto».

Che l’ha portata a scoprire un universo artistico che noi italofoni spesso snobbiamo.

«In realtà quello che noi abbiamo sviluppato – e che nel libro cerchiamo in qualche modo di dimostrare – è che negli anni immediatamente successivi al secondo dopoguerra, c’è stata una fascinazione nei confronti di un mondo musicale francese che però a noi arrivava in seconda battuta. In Francia, infatti, avevano già fatto molti passaggi, sperimentato delle contaminazioni musicali, del métissage tra la poesia, la poetica alta e i testi delle canzoni, il cabaret… Da noi queste cose rappresentarono una novità, una scoperta che poi ha generato quello che è il meglio del cantautorato italiano».

Dunque il cantautorato italiano è figlio della canzone francese?

«Totalmente. A metà degli anni Cinquanta, la figura del cantautore nasce dalle intuizioni di discografici come Nanni Ricordi, dalle esperienze di Gianni Meccia... però erano veri e propri esperimenti. Gli spunti davvero importanti arrivarono dalla Francia passando da Ventimiglia, approdando in Liguria e poi da lì alle case discografiche a Milano e poi successivamente a Roma. E lungo quel tragitto incrociarono Umberto Bindi, Gino Paoli e Fabrizio de André, poi a loro volta divenuti i primi italiani a vedere la canzone in questo modo, uscendo dagli schemi del puro intrattenimento e curando i testi in maniera molto più profonda di quanto accadeva fino a quel momento. Un tipo di canzone che se da noi rappresentò una rivoluzione, in Francia era già molto sviluppato.

La canzone francese ha influenzato solo l’Italia o anche altri Paesi hanno beneficiato di questa loro esperienza?

«Tanti, a livello culturale, nel Novecento sono debitori della Francia. Non dimentichiamo infatti che ancor prima del periodo preso in considerazione nel mio libro – quello tra gli anni ‘40 e ‘70 del secolo scorso – in pratica dai primi anni del Novecento, Parigi era il centro della vita culturale europea e mondiale. E non parlo solo di musica ma anche della pittura, della letteratura, del cinema. Ed è da Parigi che tutto ha cominciato a spargersi per il mondo intero. Grazie anche agli artisti stranieri che frequentavano la capitale francese (da Picasso e Dalì a Marlene Dietrich fino ai grandi jazzisti che è nella capitale francese che hanno visto la loro musica finalmente valorizzata). Ciò che accadeva in Francia, insomma, finiva per avere risonanza e per attecchire poi in altri Paesi, soprattutto in America che grazie ad artisti quali Aznavour, Dalida, Becaud, e ancor prima Montand, Piaf, Claude François hanno scoperto cose che non conoscevano, come ad esempio quel concetto di canzone-spettacolo che è poi divenuto uno dei tratti caratteristici degli enterteiner americani, ma che sono stati per primi i francesi a proporre». Tra l’altro una cosa curiosa è che molti artisti di punta della Francia del periodo d’oro hanno un’origine italiana, da Yves Montand (che si chiamava Ivo Livi) allo stesso Brassens che nato e cresciuto in una comunità italofona di Sète, da Dalida a Nino Ferrer. Le connessioni con l’Italia insomma sono tante: però nonostante ciò la Penisola è sempre arrivata in seconda battuta, rispetto a questo mondo».

Ne Gli anni d’oro della canzone francese lei si ferma al 1970. Cosa può insegnare quel periodo così lontano al mondo musicale di oggi?

«Mostra quelle che sono le radici di ciò che ascoltiamo oggi. È infatti attraverso la conoscenza del nostro passato che possiamo guardare al futuro, capire l’evoluzione del linguaggio e della società in generale: ciò che rispetto ad allora è migliorato e cosa invece è purtroppo andato perso e che varrebbe la pena di recuperare. Il libro si chiude con gli anni Settanta perché quel periodo ha segnato un punto di svolta: da allora infatti la cultura americana ha prevalso in Europa, e non solo a livello musicale. Guardare a ciò che era accaduto in Francia e di come ciò era stato in grado di cambiare musicalmente il mondo è anche un’opportunità per recuperare un po’ di quell’innovativo spirito europeo che oggi, purtroppo, è andato perduto».

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