L'intervista

La disobbedienza etica del ticinese Bruno Monguzzi

Il vincitore del Gran Premio svizzero di Design 2025 si racconta: dai riconoscimenti nel mondo alla necessità, a volte, di disobbedire a un mandato
© Melchior Imboden
Stefania Briccola
21.06.2025 15:15

Bruno Monguzzi si definisce un «costruttore della comunicazione» e pone la disobbedienza etica alla base del suo lavoro. Il geniale e poliedrico grafico e docente ticinese, classe 1941, è il vincitore del Gran Premio svizzero di Design 2025 insieme a Anna Monika Jost e Batia Suter. La cerimonia di consegna si è svolta lunedì 16 giugno a Basilea nell’ambito della mostra Swiss Design Awards. Progettista e pensatore, mentore e intellettuale, Bruno Monguzzi è convinto che la formazione sia un processo ampio che avviene dalla prima infanzia. I suoi lavori, che spaziano tra i progetti nell’arco di sei decenni, traducono la complessità in essenzialità declinata tra rigore e poesia. Fra i più noti si ricordano l’identità visiva del Museo d’Orsay a Parigi e i manifesti per il Museo cantonale d’arte (1987-2004). Tra le motivazioni della giuria del premio conferito dall’Ufficio federale della cultura si legge: «Con il suo lavoro di grafico, fotografo, docente e consulente, Bruno Monguzzi ha influenzato la comunicazione visiva in tutto il mondo e ha contribuito a una migliore percezione del graphic design». Abbiamo cercato di capire quale sia il segreto del suo infinito successo che lo ha portato a ricevere vari riconoscimenti fuori dalla Svizzera: dal Giappone alla Cina, dagli Stati Uniti al Brasile, dal Canada all’Inghilterra, dalla Polonia alla Francia, dalla Germania all’Italia. Il maestro ha spiegato al Corriere del Ticino perché disobbedire a un mandato a volte è necessario.

Bruno Monguzzi, come ha accolto il Gran Premio del Design svizzero?
«È stata una sorpresa perché io in realtà da moltissimi anni sono in pensione e non immaginavo che un’istituzione come l’Ufficio federale della cultura si accorgesse di me».

Che cosa la gratifica di più di quest’ultimo riconoscimento?
«Il piacere è stato enorme perché una delle motivazioni dei giurati è che i giovani sembrano trovare nel mio lavoro degli stimoli intellettuali. Già da tempo avverto il bisogno di produrre un lascito anche del mio insegnamento. A parte gli appunti conservati da qualche mio studente e alcune conferenze registrate in America, non è rimasto molto di quanto ho fatto nella didattica. Tra le mie urgenze odierne c’è quella di lasciare altre tracce di quanto ho capito soprattutto in un mondo, come quello contemporaneo, caratterizzato da una grande confusione. Sento che occorre fare chiarezza».

Come vede la grafica svizzera?
«Da anni non seguo più il mondo della grafica che per me fin da subito è stata marginale all’interno del processo della comunicazione. Ci sono altre discipline che mi appassionano di più; gli allestimenti espositivi, il cinema e l’architettura. Ero un assiduo frequentatore di mostre d’arte, poi a un certo punto ho smesso.

Perché?
«Perché erano allestite così male che mi facevano arrabbiare. “L’accrochage est au musée ce que la mise en scène est à l’opéra: on ne joue pas contre l’œuvre, mais pour son service et on transmet au public le maximum de clarté” (“L’allestimento è per il museo ciò che la messinscena è per l’opera: non ci mettiamo contro l’opera, ma al suo servizio e trasmettiamo al pubblico la massima chiarezza"). Parole di Ernst Beyeler che nella stessa intervista del 2009, pubblicata su La passion de l’art (ed. Gallimard), aveva detto che aveva sempre tenuto a fare “une œuvre d’art à partir des œuvres exposées”».

Come si è svolta la sua formazione cosmopolita?
«Ho studiato grafica a Ginevra perché mio padre aveva deciso di trasferirsi lì dal Ticino. I miei volevano indirizzarmi verso il mondo dell’economia, come aveva fatto mio fratello. A 15 anni li avevo convinti che quella non era la mia strada, volevo studiare grafica perché, nella mia ingenuità di adolescente, la associavo a un linguaggio universale. Nel corso dei miei studi a Ginevra, i miei perché rimanevano senza risposta e allora sono scappato a Londra. È qui che ho cominciato a studiare la psicologia della percezione, volevo capire perché vediamo ciò che vediamo così come lo vediamo. È questo che mi affascinava. In quel momento la scoperta delle avanguardie storiche – futurismo (in particolare quello russo), dadaismo e costruttivismo – è stata fondamentale. Sono questi poeti e artisti che, perseguendo ostinatamente il tentativo di conferire al verso una forma visuale conforme al ritmo verbale e infrangendo le “canoniche” regole tipografiche del momento, inventano l’effettiva tipografia funzionale».

Io non faccio l’artista di mestiere: il mio mestiere mi pone al sevizio di un committente, sono sempre chiamato a risolvere i problemi di qualcun altro

Nel suo modo di operare si sente più affine all’artista o al comunicatore?
«Io non faccio l’artista di mestiere: il mio mestiere mi pone al sevizio di un committente, sono sempre chiamato a risolvere i problemi di qualcun altro. L’eventuale rilevanza artistica di ciò che facciamo la darà, come dicevano Charles e Ray Eames, la storia».

A quali figure associa il suo lavoro strettamente legato alla committenza?
«Il mio mestiere è affine a quello del traduttore e dell’attore. Il traduttore scrive ma non è l’autore del testo, è l’autore della traduzione, e l’attore che ha un corpo e una voce, li dona al personaggio cui deve dare vita. Paradossalmente è solo quando riusciamo a essere compiutamente altro che diventiamo noi stessi».

Tra i suoi tanti progetti, come ricorda la committenza dell’identità visiva del Museo d’Orsay di Parigi ?
«È una storia interessante. Il Museo d’Orsay a Parigi, scrigno di capolavori dell’Impressionismo, raggruppa varie collezioni, di pittura, scultura e arti applicate, prima sparse in diverse sedi, in un edificio che era una stazione ferroviaria in disuso da anni. La sua apertura nel 1986 arriva dopo lavori lunghissimi e costosi. Si indice un concorso per il manifesto che dovrebbe annunciarla, voluto da Jean Jenger, direttore dell’opera di costruzione. Ci sono più di ottocento partecipanti da tutto il mondo, ma nessun primo premio. Infatti quasi tutti i manifesti contenevano dettagli di opere d’arte o dell’edificio del museo, scelta sgradita ai vertici della giuria dove avevano diritto di veto il direttore dei conservatori, Michel Laclotte, e Jean Jenger. Pochi progetti presentavano solo testi, con il logo sempre minuscolo, frutto di arguti “copywriters” che peccavano (secondo tutti i giurati) di una connotazione commerciale. Allora chiamano me perché non avevo partecipato al concorso e nemmeno alla giuria, ma avevo vinto quello precedente per la segnaletica visiva e l’immagine del museo. Concordiamo che nel nuovo manifesto bastano il logo e la data. Un mandato di una radicalità incredibile. Il logo è costituito da due lettere, un apostrofo, e un filetto orizzontale. Un assemblaggio tipografico, che avevo molto curato. Compongo e ricompongo logo e data, data e logo nei due formati richiesti, uno orizzontale e l’altro verticale, ma non succede nulla, solo due belle composizioni, immobili. Sento che manca qualcosa, la sostanza. Prendo un libro di Lartigue, lo sfoglio e quando appare suo fratello Zissou, che con l’ennesimo aliante costruito dallo zio tenta ostinatamente di staccarsi da terra, so che quella è la risposta. Torno a Parigi sapendo di avere disobbedito. Mi aspettano Jean Jenger e Léone Nora, responsabile delle pubbliche relazioni. Il direttore dell’opera di costruzione, solitamente molto misurato è palesemente seccato, dice che non avevo rispettato l’accordo e che comunque Orsay non era il museo dell’aviazione. Stavo per motivare la mia proposta ma mi aveva immediatamente zittito».

Come è passato da una bocciatura alla promozione?
«È stato un processo lungo, quasi interminabile. Prima, tenendo la mano sulla fronte Jean Jenger riguarda il bozzetto, sembra assente, poi, a testa bassa, inizia un pensoso lento andirivieni. Ogni tanto si ferma a riguardare il manifesto e poi ricomincia il suo viaggio dentro di sé. Finalmente si gira verso di me, ora è sorridente. "Il senso di quell’immagine simbolica aveva fatto il proprio dovere" racconterà il direttore dell’opera di costruzione tre mesi dopo in una nostra conferenza mentre quel silenzioso aliante, stampato su 3 metri per 4, planava sulla città. Per una strana coincidenza Jacques-Henri Lartigue era morto il 12 settembre del 1986. Quel sogno di volare, che aveva immortalato sedicenne, era diventato un omaggio postumo».

Come si è avvicinato al mondo della grafica dell’Estremo Oriente e in particolare del Giappone dove ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti?
«La cultura giapponese mi attraeva già da studente e prima ancora di recarmi in Estremo Oriente conoscevo il lavoro di Yusaku Kamekura, il padre della grafica moderna giapponese. Nell’ultimo periodo della sua vita, dal 1989 al 1993, ha diretto i 20 numeri della rivista Creation che lui aveva pensato come un’antologia dei progettisti grafici e illustratori che considerava significativi, sette in ogni numero. Nel numero 13 aveva pubblicato il mio lavoro, con un testo di Gene Federico, ed è allora che ho scoperto quanto mi stimasse. Nel 2000 sono invitato a Toyama dove ricevo la Medaglia d’oro della Biennale del manifesto e, ciò che mi tocca di più, lo Yusaku Kamekura Design Award, per la prima volta attribuito a un grafico non giapponese. Il presidente della giuria era Ikko Tanaka. In albergo avevo trovato una bottiglia di champagne con un biglietto di ringraziamento perché il mio lavoro “fa capire come sia possibile rileggere la cultura del passato in chiave contemporanea, senza cancellarla”».

La tesi di Tanaka era riemersa nel dibattito organizzato nel 2014 in Cina, a Shenzhen, in occasione della mia ultima grande retrospettiva Cinquant’anni di carta

Che cosa la sorprendeva di questo apprezzamento che le giungeva dal Giappone?
«La cosa interessante è che diceva esattamente il contrario di quello che si predicava in molte scuole, per esempio la scuola di Zurigo: bisogna innovare, senza guardare indietro; ogni studente deve trovare il proprio linguaggio. La tesi di Tanaka era riemersa nel dibattito organizzato nel 2014 in Cina, a Shenzhen, in occasione della mia ultima grande retrospettiva Cinquant’anni di carta. Nel simposio, incentrato soprattutto sulla tipografia, c’erano progettisti e storici cinesi e giapponesi che riflettevano, coinvolgendomi, sul ventaglio amplissimo dei caratteri tipografici presenti nel mio lavoro, ognuno determinato dallo specifico tema, e non da un fatto di gusto o “stile” personale e aprioristico».

Perché ha iniziato a insegnare?
«Per caso. Avevo poco più di vent’anni quando il proprietario della tipografia Fantoni, un’ottima azienda a Venezia dove avevo appena stampato un catalogo per IBM, vuole incontrarmi. L’azienda riscontrava ricorrenti discrepanze tra il preventivo iniziale e la fattura finale, perché c’erano sempre degli intoppi e imprevisti. Siccome nel mio caso la fattura corrispondeva al preventivo Mario Fantoni (che era anche presidente dell’associazione degli industriali veneta e sosteneva la scuola di stampa presso la fondazione Cini) mi dice “quello che lei sa lo deve condividere con i nostri ragazzi” e aveva già la bozza del programma. È così che ho cominciato a insegnare quei fondamenti professionali che avevo dovuto costruirmi da solo. Qualche mese dopo Mario Fantoni aveva anche voluto che tenessi un corso serale per compositori professionisti, un piccolo gruppo di tipografi entusiasti, di alcuni di loro potevo essere il figlio. Sono stati due anni molto belli, è bello essere guardati da occhi che si schiudono».

Quale è il logo o il lavoro che gli è riuscito meglio?
«La “P” di Pirelli rappresenta una sintesi perfetta. All’epoca quell’emblematico logo esisteva da sessant’anni, e la committenza aveva chiesto anche un segno più essenziale. Per me l’unica soluzione possibile era prendere la P allungata e farla ruotare su stessa. Qual è la migliore relazione tra il segno esistente e il nuovo segno essenziale? Naturalmente un nesso immediato. Oggi, lo rifarei pari pari. Mentre praticamente in tutti i miei altri lavori, quelli di una grande complessità, io noto subito gli errori».

Perché disubbidire ai mandati a volte è necessario e doveroso?
«Questo succede quando – avendo indagato con attenzione critica la formulazione delle problematiche che dobbiamo risolvere – riscontriamo delle incongruenze. Il caso del concorso per le nuove banconote svizzere del 1989 è esemplare. I sei personaggi e i rispettivi tagli delle banconote erano stati definiti dalla Banca Nazionale: 10 Fr Le Corbusier; 20 Fr Arthur Honegger; 50 Fr Sophie Taeuber-Arp; 100 Fr Alberto Giacometti; 200 Fr Charles-Ferdinand Ramuz; 1000 Fr Jacob Burckhardt. Al concorso su invito, eravamo stati chiamati per un incontro informativo e potevamo porre eventuali domande entro due settimane. I primi cinque personaggi, nati nell’arco di ventitré anni, tra il 1878 e il 1901, appartengono alla cultura del Novecento, il sesto, Jacob Burckhardt (1818–1897) appartiene all’Ottocento. Avevo allora suggerito, senza successo, di sostituire lo storico dell’arte Burckhardt con l’ingegnere Robert Maillart, geniale pioniere del cemento armato nato nel 1872. Ampliavo così l’ambito della creatività elvetica in un insieme più organico. Bocciato Maillart ho un altro problema: non colgo una logica immediata nell’attribuzione dei tagli ai sei personaggi, ma capisco che grazie a una sola inversione, tra Le Corbusier e Giacometti, si ottiene un ordine cronologico a ritroso, una logica accessibile a chiunque. E allora decido di disubbidire: come diceva mia nonna, costi quel che costi. La mia nuova sequenza va da Giacometti, ritratto all’età di ventun anni, a Burckhardt ultrasettantenne. Di fatto i miei personaggi “invecchiano” aumentando il loro valore. Ma niente da fare: bocciato anche Monguzzi».