L'intervista

«È il linguaggio, oggi, il vero scettro del potere»

Intervista allo scrittore, giornalista e traduttore Sergio Roic, in occasione della presentazione del suo nuovo volume
Lo scrittore, giornalista e traduttore Sergej «Sergio» Roic. © CdT/ Chiara Zocchetti
Mauro Rossi
21.09.2022 06:00

Immaginate che uno degli eventi più importanti della storia moderna occidentale, il Sessantotto francese, abbia avuto un esito differente provocando un dissesto, pressoché incolmabile, tra il blocco atlantico e quello sovietico. E provate a immaginare che un eclettico e dissacrante regista sovietico provasse a raccontare quegli eventi in un lungometraggio di finzione che, esaminato mezzo secolo dopo, avrebbe contribuito a dare una lettura ancora diversa a quegli accadimenti. Tutto questo è Feríta – Giovanna d’Arco, anno 1971, il nuovo romanzo di Sergej «Sergio» Roic (ed. Mimesis) che questa sera alle 18.30 l’autore presenterà alla Filanda di Mendrisio.

Come mai la scelta di cimentarsi in un romanzo ucronico, che rilegge una storia recente, quale il Sessantotto, di per sé talmente complessa e intricata da non necessitare quasi di ulteriori spunti di fantasia?
«L’ucronia, che consiste nel provare a immaginare un diverso corso della storia e le relative conseguenze, è ormai divenuto un vero e proprio sottogenere letterario, che è affascinante proprio perché consente allo scrittore di riplasmare a suo piacimento l’universo. Personalmente ho deciso di cimentarmi dopo aver letto un romanzo di Laurent Binet, Civilizzazioni, nel quale l’autore immagina che l’imperatore inca Atahualpa si sia imbattuto in un Cristoforo Colombo ridotto in prigionia dopo il suo sbarco nel Nuovo Mondo e, dopo aver appreso da lui la possibilità di raggiungere l’Europa, abbia varcato l’oceano con un proprio esercito cambiando completamente la storia. E siccome da tanto tempo desideravo scrivere qualcosa sul Sessantotto francese e di cosa ha rappresentato, partendo dall’idea di Binet ho provato a immaginare cosa sarebbe potuto accadere se quegli eventi fossero andati diversamente, raccontando tutto attraverso un elemento di fantasia, ovvero un film, che è al centro della narrazione e che permette di capire che il tutto è un qualcosa che ha a che fare con la finzione».

La storia da lei immaginata del Sessantotto francese rende quel convulso periodo ancora più complicato da cercare di analizzare…
«In realtà no. Nel romanzo ipotizzo infatti che un politico, il fantomatico generale Roche, abbia intravisto la possibilità, aiutando il movimento rivoluzionario studentesco, di prendere il potere. E che riesce nel suo intento. Nulla di così fantasioso: la cosa sarebbe infatti potuta tranquillamente accadere se De Gaulle (che io nel libro faccio morire d’infarto) avesse agito in un modo differente in quei convulsi giorni: una possibilità sulla quale a lungo si è discusso e che sicuramente avrebbe inciso profondamente sui destini sia della Francia che del mondo intero. Un ragionamento il mio che spinge a riflettere su come un gesto, una presa di posizione, un determinato modo di agire possa cambiare radicalmente la storia. E del quale abbiamo parecchi esempi pratici: basti pensare alla Russia dove una ex spia si è impadronita del potere riuscendo poi a condizionare non solo il proprio Paese ma anche parecchie menti occidentali, ma anche a molte altre situazioni analoghe in cui l’apparente adesione a una causa anche giusta alla fine finisca per trasformarsi in un pretesto per raggiungere i propri scopi personali».

Nel suo romanzo due sono i personaggi centrali: un regista sovietico un po’ anarchico, tale Martin Aleksandrovic Belogradski che decide di raccontare con una fiction un po’ surreale i momenti salienti del Sessantotto francese e la rivoluzione a essa seguita, e il filosofo Eric Ferita, che è un po’ l’anima nera di tutto l’accaduto. A chi si è ispirato per queste due complesse figure?
«Nel primo caso la figura di chiaro riferimento è il grande regista Andrej Tarkovskij. Lo stesso sottotitolo del romanzo, Giovanna d’Arco 1971, è infatti quello di una sceneggiatura che avrebbe voluto trasformare in un film e della quale accenna nel libro autobiografico Martirologio, che contiene i diari dei suoi ultimi 15 anni di vita. Leggendolo mi sono incuriosito: chissà cosa poteva avere in mente, mi sono chiesto, e ho provato a immaginarlo… Il personaggio di Feríta è invece un po’ ispirato al filosofo decostruzionista francese Jacques Derrida che è colui che ha focalizzato l’attenzione, partendo dal pensiero di Heidegger, sul linguaggio occidentale dall’antica Grecia fino a oggi, cercando di capire su cosa si basa, quali sono i suoi capisaldi. Deridda ha provato a decostruire la nostra lingua per vedere quale radici e fondamento nella realtà ha. Naturalmente visto nel mio romanzo tutto gira attorno a un film, alla finzione, ho provato a trasportare il ragionamento di Deridda sul linguaggio dell’immagine provando a chiedermi quanto avesse potuto influenzare anche un movimento rivoluzionario. E si tratta di un ragionamento molto attuale, visto che oggi i video, le immagini che noi vediamo suppliscono spesso la realtà o ci vengono presentati come tali anche se talvolta non lo sono».

Una difficoltà, quella di riuscire a distinguere la realtà dalla finzione, che emerge anche nel finale emblematico del suo romanzo che spinge a chiederci su cosa dobbiamo realmente basarci per riuscire a leggere in maniera chiara ed equilibrata ciò che è accaduto e che accade. In pratica che cos’è realmente la storia? È quello che è accaduto o quello che ci raccontano che è capitato?
«Questo è uno dei punti focali del libro. Quanto possiamo infatti fidarci della storia che ci viene tramandata (celebre è l’esempio del De Bello Gallico di Giulio Cesare nel quale lui parla di se stesso come di un eroe che liberò la Gallia quando invece fu il primo stragista visto che nella sua “impresa” uccise un milione di persone e questo con un solo e unico obiettivo: conquistare e consolidare il proprio potere a Roma – ma di esempi in tal senso ne potremmo fare a migliaia…)? Di quali narrazioni abbiamo la certezza che siano un resoconto veritiero e imparziale dell’accaduto e non una propaganda di parte atta a giustificare o legittimare determinati comportamenti o fatti? E, trasportando il ragionamento all’oggi, quanto credito dobbiamo fare a quella finzione (“fiction”) diventata una componente essenziale di una quotidianità che, grazie soprattutto alla tecnologia, ormai è metà finzione e metà reale? Domande che cerco di far passare nel libro parlando soprattutto di Ferita, un personaggio machiavellico che è il vero cervello di quella rivoluzione sessantottesca e che prova a convincere anche questo regista russo un po’ folle ma comunque in certa della verità, a seguire la sua idea. Che è quella di riuscire, attraverso una apparente decostruzione, a condizionare l’opinione pubblica e metterla al servizio di questo generale Roche, un personaggio apparentemente di sinistra e che dunque sostiene le istanze rivoluzionarie, ma che in realtà mira solo e unicamente al potere. Alla stregua, va detto, dello stesso Ferita, che come molti intellettuali dietro tante istanze, proclami e prese di posizioni apparentemente a sostegno di nobili cause, alla fine non fanno altro che inseguire pure loro delle logiche di potere».

Che lezione possiamo dunque trarre da Feríta - Giovanna d’Arco 1971? Che non dobbiamo fidarci di niente e di nessuno?
«Beh, di qualcosa e di qualcuno dobbiamo giocoforza fidarci, non è possibile fare altrimenti. Tuttavia, a mio avviso, è necessario avere sempre un approccio critico di fronte ad ogni cosa cercando di capire cosa c’è dietro il modo di esprimersi, di presentare ogni fatto. Esistono infatti molti modi per condizionare le persone. Pensiamo ai film, alle fiction, ad esempio che provocando emozioni, coinvolgendo attraverso il racconto di fatti drammatici, sofferenze e ingiustizie spinge inconsciamente a considerare che tutto ciò che ci viene mostrato, al di là dell’elemento narrativo, contenga delle verità. E a prendere delle posizioni in tal senso. Spesso però le cose sono ben differenti da come ci vengono mostrate. È dunque necessario fermarsi e formarci per decostruire veramente il linguaggio e provare a capire cosa c’è dietro. Soprattutto in un momento come questo in cui il linguaggio, la narrazione, sono diventati così importanti tanto da rappresentare il vero potere. Che oggi sta essenzialmente nelle mani di chi le sa adoperare nel modo più efficace».

Stasera alla Filanda la presentazione ufficiale

Sergej «Sergio» Roic è uno scrittore, giornalista e traduttore ticinese di origini balcaniche. Da oltre 25 anni è una delle «firme» culturali e letterarie del nostro giornale ed è autore di una ventina di libri – tra saggi, romanzi e racconti – pubblicati in italiano, francese e serbo croato che hanno ottenuto vari riconoscimenti e premi letterari. Tra i più recenti ricordiamo i romanzi Omaggio a Paul Klee, Vorrei che tu fossi qui / Wish You Were Here, Solaris - parte seconda e il recentissimo Plavi u nicijoi zemlji, uscito quest’estate in Serbia per i tipi di Alexandria Press.

Feríta – Giovanna d’Arco, anno 1971 (di cui è appena stata ultimata anche la traduzione in francese) verrà presentato stasera alle 18.30 dall’autore, in dialogo con lo scrittore milanese Carmelo Pistillo, alla Filanda di Mendrisio e sabato 8 ottobre, alle 10.00 alla FNAC (c/o grandi Magazzini Manor) di Lugano.