Il commento

Anche la Svizzera deve boicottare l'Eurovision Song Contest?

La riconsegna del trofeo da parte di Nemo pone diverse questioni sulla manifestazione e sul concetto stesso di neutralità: fino a che punto è legittimo colpire la cultura per punire la politica?
Mattia Sacchi
12.12.2025 18:45
Let me tell you a tale about life / ‘Bout the good and the bad, better hold on tight / Who decides what’s wrong, what’s right? / Everything is balance, everything’s light
Nemo - The Code

In The Code, la canzone con cui Nemo ha vinto l’Eurovision, tutto ruota attorno a una domanda solo in apparenza semplice: chi decide davvero che cosa è giusto e che cosa è sbagliato? Il brano parla di equilibrio, di luce e ombra, di una linea sottile che separa il bene dal male e che raramente resta ferma. È una riflessione intima, non ideologica, che invita a tenersi stretti quando le certezze vacillano. È anche per questo che il gesto compiuto oggi dallo stesso Nemo – la rinuncia al trofeo conquistato nel 2024 a Malmö – pesa più di molte dichiarazioni ufficiali.

Non è un atto diplomatico né una mossa istituzionale. È una presa di posizione individuale che mette a disagio proprio perché arriva da chi l’Eurovision lo ha incarnato nel suo momento più alto. Restituire il premio non cambia gli equilibri dell’Unione europea di radiodiffusione (UER o EBU), non riscrive i regolamenti, non costringe nessuno a rivedere formalmente le proprie scelte. Ma incrina il racconto. Perché se perfino chi ha vinto non si riconosce più nei valori proclamati, allora il problema non è marginale.

È da qui che il discorso si allarga e smette di riguardare solo un artista. La neutralità funziona finché resta una posizione; quando diventa una domanda, costringe a esporsi. È esattamente il punto in cui si trova oggi la Svizzera davanti all’Eurovision Song Contest 2026. Non perché debba «scegliere un campo» in senso geopolitico, ma perché il concorso stesso ha ormai superato la soglia oltre la quale l’idea di evento apolitico regge solo sulla carta.

I fatti sono noti. Cinque Paesi hanno annunciato il boicottaggio in segno di protesta contro la partecipazione di Israele. L’EBU ha ribadito la propria linea: l’Eurovision non è un’arena politica, gli artisti non sono governi, la musica deve restare uno spazio neutro. Una posizione formalmente coerente, ma sempre più fragile nella pratica. Perché la politica, quando irrompe nella realtà, non chiede il permesso ai regolamenti. Entra, occupa lo spazio, ridefinisce i confini. E questo succede anche in questo genere di manifestazioni. Soprattutto in questo genere di manifestazioni.

È un elemento che merita di essere detto senza ingenuità. Chi ha vissuto l’Eurovision dall’interno, da inviato come lo scrivente, sa bene quanto la dimensione politica sia strutturale e non accessoria. Le grandi istituzioni europee sono costantemente presenti, protagoniste di eventi collaterali, panel e iniziative ufficiali nelle città ospitanti. I messaggi politici attraversano le canzoni, i testi, le messe in scena, a volte in modo esplicito, altre in forma simbolica. L’ESC non ha mai nascosto di voler raccontare una certa idea di Europa: inclusiva, progressista, valoriale. È una scelta legittima, ma fingere che non esista significa raccontare solo una parte della storia.

La Svizzera, in questo contesto, occupa una posizione unica e scomoda. Ospita la sede dell’EBU, ha ospitato proprio a Lugano la prima edizione dell'Eurovision, custodisce una tradizione di neutralità attiva, è sede di organismi internazionali che fanno dei diritti umani la loro ragion d’essere. Non può limitarsi a «partecipare come sempre» senza che questo venga letto come una scelta. Perché oggi anche restare è una forma di posizionamento, e fingere il contrario rischia di apparire come una scorciatoia.

Boicottare, tuttavia, non è una soluzione priva di conseguenze. Significherebbe accettare che l’Eurovision diventi un terreno di sanzioni culturali, con tutti i rischi di arbitrarietà e di doppi standard che questo comporta. Se si esclude uno Stato per un conflitto in corso, dove si traccia il confine? E chi lo decide? È una strada che promette coerenza morale, ma apre scenari difficili da governare.

La storia recente invita alla prudenza anche su un altro fronte. Dopo l’invasione russa dell’Ucraina, la Russia è stata esclusa dalle principali competizioni sportive internazionali, dalle Olimpiadi ai Mondiali, in una logica di sanzione che colpisce lo Stato e la sua rappresentazione ufficiale. Una scelta discussa ma coerente con il principio secondo cui lo sport, quando assume una dimensione nazionale, diventa anche strumento politico. Ancora più scivoloso è il terreno della cultura e della produzione artistica. In Italia si è arrivati a mettere in discussione perfino l’insegnamento dei grandi autori russi. Il caso di Paolo Nori, a cui l’Università Bicocca comunicò il rinvio di un ciclo di lezioni su Dostoevskij «per evitare polemiche», resta emblematico. «Censurare un corso è ridicolo», disse allora lo scrittore, ricordando come la responsabilità di una guerra non possa essere trasferita alla letteratura, alla musica, all’arte. Una vicenda rientrata formalmente, ma che lasciò una domanda aperta: fino a che punto è legittimo estendere la logica della sanzione politica alla cultura, rischiando di colpire non il potere, ma la complessità di una tradizione?

Come ha ricordato Fernando Aramburu, la Russia non coincide con il suo leader. E lo stesso vale, in senso più ampio, per ogni contesto di conflitto: gli artisti non sono i governi, le opere non sono atti di guerra. Colpirle rischia di produrre più semplificazione che giustizia, più silenzi che comprensione.

Allo stesso tempo, continuare a invocare la neutralità come se nulla fosse rischia di apparire come un alibi. L’Eurovision è un palcoscenico di identità nazionali, tensioni simboliche, messaggi impliciti. Fingere che oggi sia diverso, mentre interi Paesi si sfilano e artisti rifiutano di salire su quel palco, significa sottovalutare la portata della crisi.

Il punto, allora, non è se la Svizzera debba boicottare o meno. Il punto è che l’Eurovision ha smesso di essere un semplice spettacolo musicale e l’EBU non può più limitarsi a gestire il problema con aggiustamenti tecnici o richiami generici alla neutralità. Serve una riflessione politica nel senso alto del termine: sul ruolo della cultura nei conflitti, sui limiti dell’equidistanza, sul significato concreto di parole come unità e inclusione.

Se la Svizzera ha oggi una responsabilità, non è quella di dare lezioni morali né di alzarsi dal tavolo. È quella di usare la propria posizione e la propria storia diplomatica per pretendere chiarezza. Perché quando un evento nato per unire finisce per dividere, il problema non è chi protesta, ma ciò che non si vuole più vedere.