L'intervista

«Evviva lo jodel, ma le iniziative dell'UNESCO non mi entusiasmano»

Con Marcello Sorce Keller, etnomusicologo, torniamo sul canto alpino emblema dell'identità svizzera appena riconosciuto come patrimonio culturale immateriale
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13.12.2025 09:00

Lo jodel è stato inserito nella lista dell’UNESCO rappresentativa del patrimonio culturale immateriale dell’umanità. Il dossier sul canto alpino, divenuto emblema dell’identità elvetica e simbolo nazionale, è stato coordinato dall’Ufficio federale della cultura mentre il verdetto è stato emesso alcuni giorni fa a Nuova Delhi. Le tradizioni svizzere già iscritte nel patrimonio immateriale dell’umanità includono la Fête des Vignerons a Vevey, il Carnevale di Basilea, la gestione delle valanghe, le Processioni della Settimana Santa a Mendrisio, l’arte orologiera e la stagione alpestre. Oggi, 13 dicembre, lo jodel viene celebrato al Mythenforum Schwyz con una giornata dedicata, organizzata dal Cantone di Svitto, dall’Associazione svizzera di jodel, dal Roothuus Gonten e dalla Hochschule für Musik di Lucerna, dove operano i ricercatori Raymond Ammann, Andrea Kammermann e Yannick Wey. Delle origini, declinazioni e fortune dello jodel e della monumentalizzazione delle tradizioni culturali effettuata dall’UNESCO abbiamo parlato con l’etnomusicologo ticinese Marcello Sorce Keller, ricercatore associato presso l’Istituto di Musicologia dell’Università di Berna.

Professor Keller, che cos’è lo jodel?
«È un canto alpino, praticato da voci maschili e femminili, caratterizzato dal rapido passaggio tra registro di petto e falsetto, su sillabe vocaliche prive di testo. Tutti in Svizzera ne hanno un’idea, e chi non lo conosce può ascoltarlo facilmente, per esempio su YouTube».

Quali forme assume lo jodel?
«Lo jodel varia molto da regione a regione. In Svizzera è caratterizzato da polifonia (2–4 voci), timbro omogeneo e leggermente nasale, alternanza petto/falsetto molto netta e accompagnamenti tradizionali. C’è un repertorio spesso scritto, una forte valenza identitaria e si tengono concorsi. In Austria (Tirolo, Salzkammergut, Stiria) lo jodel è invece più libero e improvvisato, con timbri più aperti e un registro di testa meno levigato; ha funzione conviviale e comunitaria. Nell’Italia alpina (Dolomiti, Sudtirolo) è integrato nel canto popolare locale, ha un timbro più morbido, intervalli meno estremi; è poco codificato e di scarsa visibilità internazionale. Fuori dall’Europa, pochi sanno che si incontrano forme di jodel in Indonesia (Flores), Stati Uniti, Lapponia, Georgia, Mongolia, e tra i Pigmei della Repubblica Democratica del Congo. In sintesi: la Svizzera ha “classicizzato” lo jodel; l’Austria ne ha conservato la spontaneità; l’Italia ne mantiene forme mescolate e meno autonome. Spesso capita di ascoltare momenti di jodel anche nel rock ’n’ roll e nel pop (per esempio Eloise di Barry Ryan) e nel canto del cantautore italiano Mango degli anni ’90».

Perché quando si parla di jodel si pensa subito alla Svizzera?
«Non per ragioni musicali perché lo jodel non è nato in Svizzera, ma per un’operazione identitaria. Tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo lo jodel, insieme al corno delle Alpi e ai costumi regionali, fu elevato a simbolo nazionale. Festival, cartoline, turismo e soprattutto trasmissioni radio, dischi e tournée dei Jodlerchöre consolidarono l’immagine dello jodel come qualcosa di tipicamente svizzero. Anche il cinema americano dagli anni ’30 contribuì a tale scopo, usando lo jodel spesso in chiave caricaturale e amplificando così lo stereotipo (celebre la domanda che Groucho Marx rivolgeva a ogni svizzero che incontrava: “Can you jodel?”). Infine, e in definitiva, la Svizzera, a differenza di altri Paesi alpini, lo ha istituzionalizzato con scuole, concorsi e federazioni».

Come si trasmette lo jodel quando non c’è una notazione scritta?
«Lo jodel nasce come tradizione orale. In Svizzera oggi è anche in parte scritta. Il fatto che la maggior parte delle musiche del mondo sia trasmessa senza notazione smentisce l’idea, tipicamente occidentale, che “musica = scrittura”. Questa idea è ormai così radicata che nei conservatori la musica si apprende più con gli occhi che con le orecchie anche se gli etnomusicologi (e temo di appartenere a questa minoranza discriminata) trovano tutto ciò innaturale e assurdo».

L’UNESCO ha creato circa 600 patrimoni immateriali, fra cui il canto a tenore sardo, il fado, il rebetiko e il flamenco. L’idea di conservare e “monumentalizzare” le pratiche culturali più note di alcune nazioni mi sembra discutibile

Lo jodel è in qualche modo presente nella musica colta?
«Alcuni compositori lo hanno usato come nota di colore folklorico: gli svizzeri Arthur Honegger e Frank Martin, l’austriaco Gustav Mahler, con richiami al canto tirolese nella Terza e Settima sinfonia, i tedeschi Richard Strauss (Eine Alpensinfonie) e Paul Hindemith, con citazioni popolari bavaresi. Tuttavia, più che di jodel veri e propri, si tratta di stilizzazioni. Per completezza aggiungo che anche il jazz europeo e alcune operette austro-tedesche ne fecero uso».

Che opinione ha dell’iniziativa UNESCO per la salvaguardia del patrimonio immateriale con una lista rappresentativa di beni fondamentali?
«Sinceramente, non mi entusiasma. L’UNESCO ha creato circa 600 patrimoni immateriali, fra cui il canto a tenore sardo, il fado, il rebetiko e il flamenco. L’idea di conservare e “monumentalizzare” le pratiche culturali più note di alcune nazioni mi sembra discutibile. Nasce col romanticismo il postulato estetico che valorizza la permanenza, mentre numerose culture orientali, come quella giapponese, celebrano l’effimero. Però nel XX secolo l’Occidente stesso ha riscoperto il valore del transitorio: dai poeti del decadentismo (Baudelaire) alla Performance art (Abramović, Kaprow), dalla Land art (Long, Goldsworthy) all’estetica relazionale (Bourriaud). Quello che tento di dire è che una pratica culturale vive, evolve e può anche scomparire. Se nulla morisse, non ci sarebbe spazio fisico o mentale per il nuovo. Mi viene in mente il personaggio di Funes el memorioso dello scrittore argentino Jorge Louis Borges: il quale ricordando tutto non era in grado di attribuire senso alle singole esperienze. C’è poi da osservare anche che non tutte le tradizioni sono “protette”. Qui giocano ragioni ideologiche. L’opera lirica è mantenuta in vita con la tenda a ossigeno che le dà denaro pubblico in quantità. Altre come quella del film muto, il Minstrel Show, l’operetta sono scomparsi senza clamore. Nessuno le rimpiange. Il genere del film western mi pare in pericolo».

Che opinione ha dei corsi e diplomi universitari dedicati allo jodel?
«Finché c’è domanda, interessa e gli studenti li scelgono, perché non dovrebbero esistere?».

Come si mantengono vive le tradizioni musicali?
«I modi per farlo sono numerosi. Dipendono dal contesto e dalle ragioni per cui si vuole mantenere viva una data tradizione. Personalmente sono poco favorevole alla conservazione realizzata col sostegno di denaro pubblico, sottratto dalle tasche di chi non è interessato a tali operazioni».