La storia

Quando la politica sale sul palco di Eurovision

La competizione canora non è solo canzoni discutibili e atmosfere kitsch, ma anche un incrocio di tensioni e problemi
Marcello Pelizzari
07.05.2022 15:12

Luci, acuti, balletti, kitsch in quantità industriali. E canzoni, tante canzoni. Molte di dubbio gusto, altre accattivanti. Tutte, in ogni caso, senza la possibilità di allungarsi oltre i tre minuti. Lo impone il regolamento, già. Parliamo dell’Eurovision Song Contest, la creatura dell’Unione europea di radiodiffusione (UER) capace di catturare 200 milioni di telespettatori. Roba da matti.

In passato, sono stati proprio la natura transnazionale della competizione e l’ampio seguito ad aver trasformato, spesso, il palco in uno strumento geopolitico. Fra accuse, attivismo e propaganda. No, se ve lo stavate chiedendo non stiamo scherzando.

Niente Russia

Ufficialmente, un po’ come nello sport, la politica è (o dovrebbe essere) esclusa dal concorso. L’UER, infatti, definisce l’Eurovision un incontro di culture. Qualcosa, insomma, che favorisca gli scambi internazionali e la comprensione reciproca. Non certo il litigio e lo scontro. Detto ciò, più o meno ogni edizione ha avuto il suo strascico di piccoli, grandi casi.

L’edizione 2022, al via a Torino, non farà eccezione considerando il contesto attuale. Basti pensare che, all’indomani dell’invasione dell’Ucraina, la Russia è stata esclusa. Lo stesso dicasi per la Bielorussia, fermata nel luglio 2021 per tre anni a causa del tenore politico delle canzoni proposte e, ancora, della situazione nel Paese guidato da Lukashenko. Kiev, per contro, ha firmato un’autorizzazione speciale per permettere al gruppo Kalush Orchestra (composto da soli uomini, tutti arruolabili nell’esercito) di partecipare. Spoiler: sono i favoriti.

L'edizione 2016

L’Ucraina aveva conquistato la competizione, per l’ultima volta, a Stoccolma nel 2016. All’epoca, il brano 1944 aveva fatto storcere il naso – indovinate un po’? – alla Russia. Jamala, autrice e interprete, dedicò quei versi alla sua bisnonna. Vittima di deportazione, ai tempi di Stalin, assieme a 240 mila altri tatari della Crimea. Un messaggio politico, a detta di Mosca, tenendo ben presente quanto successo nel 2014 con l’annessione. Di qui la richiesta di escludere la cantante ucraina.

Nel 2009, le tensioni fra Georgia e Russia erano a livelli altissimi. L’UER, onde evitare il caos, corse ai ripari ritoccando il pezzo georgiano, We Don’t Wanna Put In, sorta di calembour che chiamava in causa nientepopodimeno che il leader del Cremlino. Anche l’Armenia fu pregata di modificare il titolo del suo brano del 2015, Don’t Deny, un chiaro riferimento al rifiuto, da parte della Turchia, di riconoscere il genocidio armeno del 1915.

L’Ucraina, nel 2016, se la cavò senza problemi. No, la canzone non era politicizzata e, dunque, non violava il regolamento.

Jamala. © Shutterstock
Jamala. © Shutterstock

Le bandiere

Ma il 2016, a ben vedere, fu caratterizzato da un’altra diatriba. Quella delle bandiere, già. Che cosa successe? Beh, stando all’elenco dell’organizzazione i vessilli regionali erano vietati. Attenzione, perché in quell’elenco figurava pure la bandiera dell’ISIS. I Paesi Baschi nel girone dei cattivi assieme allo Stato Islamico? Ahia.

Dopo il classico giro di scuse, l’UER ribadì che solo e soltanto le bandiere dei Paesi partecipanti alla competizione e dell’Unione Europea sarebbero state concesse, unitamente alla bandiera arcobaleno simbolo della comunità LGBT.

Regole rispettate? Ma figuriamoci. L’armena Iveta Moukoutchian sventolò il simbolo della regione separatista del Nagorno Karabakh. Scatenando l’ira dell’Azerbaigian, che a quel punto pretendeva sanzioni nei confronti dell’avversaria. La faccenda si risolse con un semplice avvertimento.

Armenia e Azerbaigian, ad ogni modo, da anni si fanno la guerra nelle votazioni. Baku classifica sistematicamente Yerevan all’ultimo posto, mentre Yerevan raramente concede dei punti a Baku.

Anche il pubblico, negli anni, ha recitato la sua parte. Detto del 2016, nelle due precedenti edizioni gli artisti russi vennero fischiati dagli spettatori. Il motivo? Le leggi anti-gay adottate da Mosca.

Mosca, leggiamo, reagì male, anzi malissimo al successo ucraino del 2016. Non tanto, o non solo, per il presunto affronto politico di 1944 ma perché, secondo i pronostici, avrebbe dovuto vincere il brano russo. Un senatore arrivò perfino ad affermare che «la politica ha battuto l’arte», suggerendo di boicottare l’edizione successiva in Ucraina.

Alla fine, la Russia optò comunque per presentarsi a Kiev ma a Yulia Samoilova fu negato l’ingresso nel Paese, avendo tenuto un concerto in Crimea nel 2015 senza il permesso delle autorità ucraine. L’UER intervenne a mo’ di mediatore, ma non ci fu niente da fare. Mosca, quindi, si ritirò dal concorso non senza accusare l’Ucraina di discriminazione, dal momento che Samoilova – complice l’atrofia muscolare spinale – è costretta alla sedia a rotelle.

La francese Barbara Pravi nel 2021. © Shutterstock
La francese Barbara Pravi nel 2021. © Shutterstock

Gli sms di Macron

Incredibilmente, ma nemmeno troppo, Eurovision ha coinvolto in prima persona pure politici di alto, altissimo profilo. Prendete la Francia: dopo anni e anni di delusioni e piazzamenti imbarazzanti, ha cominciato a preparare la competizione come fosse un’Olimpiade. Mobilitando, in ottica voto, perfino i francesi che vivono all’estero.

Nel 2021, a Rotterdam, i transalpini si piazzarono al secondo posto alle spalle degli inarrivabili Maneskin. Un risultato di prestigio, proprio pensando al deserto attraversato in precedenza. A sostenere la causa francese, un anno fa, nei Paesi Bassi fu mandato pure il Segretario di Stato per gli affari europei, Clément Beaune. Davanti alla tv, a Parigi, c’era invece il presidente Emmanuel Macron. Che, leggiamo su Le Monde, quando l’Italia stava vincendo inviò diversi SMS a Stéphane Bern, co-conduttore per la tv francese, chiedendogli di «fare qualcosa».

I grandi Paesi, che tendevano a snobbare l’evento, ora ne sono i primi sostenitori. Oltre alla Francia, citiamo l’Italia e, in prospettiva, il Regno Unito. Un investimento che, per quanto assurdo, è altresì culturale e, appunto, diplomatico.

Le critiche

Le critiche, certo, non sono mancate e non mancano. A detta di molti, l’ampio pubblico e la dimensione internazionale dell’evento hanno spinto Paesi come Israele a sfruttare la kermesse per ripulire la propria immagine. Mandando sul palco gli esponenti più progressisti della società, come artisti della comunità LGBT.

Un aspetto, questo, ancora più importante per i governi autoritari. Ospitare l’Eurovision, in questo senso, è come fungere da sede per una finale di Champions League. Prestigio, soft power e via discorrendo. Ne sa qualcosa l’Azerbaigian, che nel 2012 spese 160 milioni di euro per mostrarsi all’Europa e al mondo nel migliore dei modi. L’esercizio si rivelò un mezzo autogol, giacché con i riflettori puntati addosso Baku non seppe nascondere le derive autocratiche del regime. Le organizzazioni per i diritti umani, dal canto loro, criticarono aspramente l’UER per il suo scarso attivismo nel denunciare i soprusi azeri.

Molto, però, è cambiato nel frattempo e la stessa UER sembrerebbe più attenta al contesto che la circonda. Lo dimostrano le esclusioni della Bielorussia e della Russia per il 2022. Per quanto la politica sia tenuta lontana dal palco, trova sempre un modo per salirvi.