Non è vero che l’abito non fa il monaco e il costume non fa l’indiano

La Nota
L’abito non fa il monaco: questo lo insegniamo ai bambini a scuola e lo leggiamo nei raccontini morali; nella pratica, però, signori miei, l’abito fa il monaco e fa anche l’indiano.
Se l’illustre (absit «ironia» verbis) Edgardo Laplante (nota di 100 anni dopo: il sedicente capo pellerossa Tewanna Ray) ha potuto turlupinare tanta gente piccola e grande, tante persone che hanno il brevetto della furberia, tanti personaggi che nè voi nè io, cari lettori, potremmo avvicinare senza passare attraverso molte anticamere, e con la certezza di sentirsi guardati e salutati dall’altezza del Monte Bianco, ha trovato la tavola degli onori sempre imbandita, la cassaforte del prossimo sempre aperta, lo si deve al costume del pellerossa e ai quattro soldi che gettava al vento.
Se l’illustre Edgardo Laplante si fosse presentato come un modesto borghese qualsiasi a dire «Signori, io sono un principe pellerossa ed ho al mio paese terre e milioni a bizzeffe, prestatemi mille franchi», la gente furba gli avrebbe riso in faccia; l’altra avrebbe finto di credere ma sarebbe corsa a cercare informazioni, prima di allentare i cordoni della borsa; e la polizia, quella polizia dai mille occhi, dalle mille braccia, che inquisisce sul passaporto del povero diavolo per controllare se il numero dei visti e dei timbri è rigorosamente esatto, che non ne ha mai abbastanza di carte e di documenti di identità, si sarebbe affrettata a telegrafare ai quattro angoli della Terra per documentare le storielle raccontate dall’inesauribile pellerossa.
Ma il principe ha il costume costellato di fondi di bicchiere, ha i quattrini, ha insomma tutto l’abito che occorre per fare il monaco e tutti gli fanno di cappello e di schiena, le case si aprono, le borse – Apriti, Sesamo – si schiudono, la polizia diventa cieca ed eziandio sordomuta e tutti cadono nel trucco come le mosche nel latte. Il che prova non essere vero che l’abito non fa il monaco e il costume non fa l’indiano.
Gavroche
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