L'intervista

«Oggi per i cantautori non c'è quasi più spazio»

Sarà uno dei protagonisti di «City of Guitars», la grande kermesse musicale che venerdì e sabato animerà il centro di Locarno – È Rosalino Cellamare, in arte Ron
Mauro Rossi
07.09.2022 06:00

Sarà uno dei protagonisti di «City of Guitars», la grande kermesse musicale che venerdì e sabato animerà il centro di Locarno. È Rosalino Cellamare, in arte Ron, uno dei pilastri della canzone d’autore italiana sia come interprete sia come autore di canzoni portate al successo da altri, da Piazza Grande a Il gigante e la bambina, da Una città per cantare a Non abbiam bisogno di parole a Attenti al lupo. Lo abbiamo incontrato alla vigilia dell’evento in cui celebrerà, appunto, i suoi primi 50 anni di carriera.

Cinquant’anni che però in realtà sono molto di più visto che la sua attività artistica iniziò molto prima quasi da bambino, nel 1967…

«In effetti è così anche se, personalmente mi piace ricondurre l’avvio della mia carriera professionale al 1970 e a quella partecipazione al Festival di Sanremo assieme a Nada con Pà diglielo a ma: fu quella infatti la mia prima apparizione televisiva e il primo evento davvero importante a cui presi parte… Anche in quel caso, comunque sono più di 50 anni, però c’è stata la pandemia che di occasioni per festeggiare ce ne ha date davvero poco».

Ripensando a quel Sanremo e confrontandolo con il festival di oggi, che sentimenti prova? E soprattutto che differenze riscontra tra ciò che la rassegna rappresentava e cosa è diventata?

«Si tratta di due realtà diverse. A quei tempi – in cui, va ricordato, avevo sedici anni, una gran faccia tosta e una grinta pazzesca con cui affrontai l’avventura consapevole del fatto che non avevo alcunché da perdere – c’era una grande attenzione attorno alle canzoni. Oggi Sanremo, pur continuando a chiamarsi “Festival della canzone italiana” è il festival dei personaggi, in cui emerge chi si presenta in un certo modo, chi fa parlare di sé anche al di fuori degli ambiti musicali. È insomma una cosa differente in cui la canzone passa sostanzialmente in secondo piano».

Questa attenzione più al look che alla sostanza ritiene sia un trend solamente sanremese oppure riconducibile all’interno mondo della canzone che sta attraversando un momento se non di difficoltà di trasformazione?

«Il termine trasformazione mi sembra appropriato. Quello che stiamo vivendo è il tempo di questa nuova generazione di artisti – alcuni dei quali, va detto, molto bravi – che hanno un linguaggio musicale diverso dal nostro. E sui quali l’industria discografica sta investendo tanto mettendo un po’ da parte la nostra categoria, quella del cantautorato diciamo così “tradizionale” che è stata quasi cancellata dal panorama, soprattutto da quello radiofonico. Gli spazi a nostra disposizione, insomma, per chi fa musica d’autore sono diventati pochissimi».

Torniamo allora indietro nel tempo, ai suoi inizi di carriera che, dopo quel «mitico» Sanremo del 1970, le regalarono anche delle opportunità cinematografiche, molto diverse rispetto a quelle dei suoi giovani colleghi dell’epoca che al massimo potevano contare su qualche musicarello o su degli sceneggiati Tv: lei infatti fu chiamato a lavorare con registi quali Giuliano Montaldo, Luigi Magni… Come mai, nonostante i buoni riscontri ottenuti, decise di non proseguire su quella strada?

«Perché mi teneva troppo impegnato: il mondo del cinema, soprattutto quello di un certo livello, richiede un’attenzione costante, devi dedicarci tanto tempo. E siccome io non mi sono mai ritenuto un attore (benché pare piacessi in quel ruolo) non avevo voglia di approfondire il discorso. Preferivo la musica che è il mio primo e vero grande amore e dunque ho preferito concentrarmi su quella…»

Anche perché in quel periodo iniziava la sua stretta collaborazione con Lucio Dalla…

«Vero: è in quel periodo che abbiamo iniziato a scrivere cose insieme. Inizialmente io mi occupavo solo della musica lasciando a lui i testi. Poi dopo un paio di anni mi ha detto chiaramente che anche di quelli dovevo occuparmi io. Ci ho provato e devo ammettere che le cose non sono poi venute così male, a giudicare dai risultati».

Mi sembra di capire che nello sviluppo della sua carriera Lucio Dalla sia stato fondamentale.

«Certamente! E per varie ragioni. Innanzitutto perché era una persona completamente diversa da me, colta, spiritosa, con la quale era bello confrontarsi. Musicalmente poi lui arrivava dal jazz, aveva una grande formazione in quell’ambito, suonava vari strumenti e portava quella sua grande esperienza nel pop arricchendolo con accordi e arrangiamenti speciali. E stare al suo fianco è stata una continua fonte di arricchimento, soprattutto per me che avevo nelle mie corde prevalentemente il rock di stampo anglosassone: da Lou Reed a Cat Stevens a Jackson Browne di cui ho poi ripreso The Road trasformandola in Una città per cantare. Sì è stato davvero importante e bello lavorare con lui».

Un rapporto, il vostro che è stato di grande interscambio: è vero quello che si racconta che, ad esempio, Attenti al lupo sia una canzone che Dalla ha inciso perché lei – che l’aveva scritta – si rifiutava di farlo?

«Sì: Attenti al lupo la scrissi un pomeriggio dopo aver ascoltato Englishman In New York di Sting che mi colpì per quel suo ritmo in levare. Mi misi al pianoforte e venne fuori questa melodia buffa alla quale aggiunsi di getto un testo divertente, quasi un gioco. Che però, pur piacevole, capivo che non aveva nulla a che fare con me. La feci ascoltare a Lucio il quale mi disse: “Bella, la canterai?” “Non ci penso proprio!” gli risposi ridendo. Lui allora replicò: allora lo faccio io e vedrai che venderemo un milione di copie. Beh, aveva sbagliato: di copie Attenti al lupo ne vendette un milione mezzo… Questo per dire che Lucio aveva un fiuto eccezionale, un istinto innato su come andavano le cose in ambito musicale».

Dopo aver «cileccato» (si fa per dire) con Attenti al lupo si è comunque consolato con Le foglie e il vento uno dei dischi più felici della sua produzione.

«È stato un album speciale con il quale avviai una felice collaborazione con il produttore inglese Greg Walsh con il quale realizzai parecchie cose tra cui quella Vorrei incontrarti tra cent’anni con cui poi riuscii a vincere Sanremo».

Un festival al quale pensa ancora di tornare?

«Non lo so visto il trend di cui parlavamo in precedenza. Però mai dire mai: una volta al festival ti invitavano, ma non so se funziona ancora così visto che di chiamate in tal senso ultimamente non me ne sono arrivate...» (ride)

Nel frattempo però so che c’è in ballo un disco celebrativo di questi suoi primi 50 anni di carriera…

«Sì intitolerà Sono un figlio e lo presenteremo ufficialmente a fine mese. Si tratta di un disco di inediti, il primo in tal senso che pubblico da otto anni a questa parte… Non posso dire nulla al riguardo: quello che posso solo anticipare è che già in autunno e inverno lo porterò in tour: suonare davanti al pubblico è ancora la cosa che rende il mio mestiere eccezionale». E proprio in quest’ottica cosa dobbiamo aspettarci dalla sua performance a City of Guitars? «Una carrellata tra le canzoni più celebri del mio repertorio, partendo da lontano e arrivando fino a oggi cercando il più possibile di divertire chi verrà ad ascoltarmi».