Teatro

Quando la rappresentazione abbatte la «quarta parete»

Si è conclusa ieri a Lugano la rassegna internazionale del teatro contemporaneo FIT Festival dedicato quest’anno al tema delle donne
Laura Di Corcia
12.10.2022 06:00

È terminato ieri sera, con la replica dello spettacolo Bogdaproste. Che Dio perdoni le tue morti di Catherine Bertoni de Laet (produzione LAC), il FIT Festival internazionale di teatro curato da Paola Tripoli, che ogni anno propone un ricco calendario di spettacoli, performance e incontri. Questo Festival si è confermato anche con questa edizione un gioiellino che ha il merito di portare a Lugano un assaggio di quello che accade a livello teatrale nella scena internazionale. Una cosa non affatto scontata, se è vero che il Canton Ticino, pur fra la varietà di proposte culturali serie e interessanti, rimane una regione (ammettiamolo) di provincia. Ebbene il FIT, in collaborazione con il LAC, ha il grande merito di trasformare Lugano in una piccola Santarcangelo di Romagna, la sede di uno dei più quotati Festival di teatro italiano, dando anno dopo anno al pubblico che abbia la voglia, la pazienza e l’attenzione di seguirlo integralmente, un’idea più che approfondita di cosa si muove nelle arti sceniche a livello di ricerca e di sperimentazione. Non è raro che al FIT certi artisti ritornino, come è stato per esempio il caso quest’anno di Manuela Infante, che ha portato in scena uno spettacolo non facile come Como convertirse en piedra, un lavoro cerebrale e impegnativo che il pubblico ha dimostrato di saper capire e accogliere (e semmai di criticare dopo attento vaglio) e come è stato anche il caso di Tabea Martin, la coreografa svizzera che quest’anno al LAC, di fronte a una sala che ha registrato il tutto esaurito, ha lavorato sul tema del capro espiatorio e dell’esclusione attraverso dei frame colorati e simpatici, per mostrare come anche il nostro mondo social, tutto emoticon, sorrisini e cuoricini, serbi in seno la violenza come regolatrice dei rapporti fra gli esseri umani. Questi due elementi – il fatto che gli artisti ritornino e il fatto che molti degli spettacoli proposti abbiano avuto luogo di fronte alla sala pienissima – dimostrano anche quale sia il proposito (o anche il risultato) di un Festival come il FIT (e più in generale di una programmazione non sempre semplice e scontata come quella del LAC, che si affianca ad altre proposte di pregio presenti sul territorio cantonale): educare il pubblico al linguaggio contemporaneo, alle nuove proposte sceniche che non si risolvono in un’idea – ormai sorpassata da decenni – di teatro borghese, dove in scena si dipana una storia con un inizio, uno svolgimento e una fine e dove la quarta parete protegga lo spazio dall’inquietante presenza dell’altro (ovvero il pubblico).

Il paradosso del centro

Mi sembra di non scostarmi troppo dalla realtà quando dico che lo scopo del Festival è problematizzare: non a caso ogni anno il cartellone parte da un tema, che nasce sotto forma di interrogativo, e a una serie di domande essenziali cerca attraverso una serie di proposte e di risposte (spesso, è ovvio, frammentarie o auto-trasformantesi in nuove domande) di trovare dei puntelli, di circoscrivere perlomeno il perimetro della riflessione. Quest’anno i molti quesiti ruotavano attorno al tema della donna: le risposte, calate all’interno di altre domande e aree di ricerca, sono state varie e intense. Mi è sembrato interessante che il tema della violenza compiuta per mano della donna stessa sia tornato in due lavori, in quello di Marina Otero, che ha ammesso di aver malmenato e brutalizzato il suo ex fidanzato, e in quello di Catherine Bertoni de Laet, che ha lavorato sul personaggio di Medea. In tanti casi - ma forse, a ben pensarci, in tutti il tema della donna è stato inserito all’interno di un contesto di ricerca più ampio, volto a indagare altre zone di ingiustizia e/o fragilità, come il confine ancora netto che separa il Nord e il Sud del mondo. Il fatto che lo spettacolo che ha chiuso la stagione lunedì sera, quello di Kristien De Proost, abbia sottolineato la distanza/differenza fra il pubblico e gli attori in scena con un nastro adesivo, mi è sembrato alludere ancora una volta a quel confine. Il testo si concentrava sul paradosso del centro, come si poteva leggere sulla locandina: su quell’ambiguità, che Marie Louise von Franz descrive perfettamente nel suo Puer aeternus, di desiderare fondersi nella massa volendosene al contempo distinguere. Uno specchio, in scena, restituiva al pubblico l’immagine di se stesso. Ecco, forse è quello il simbolo più importante del teatro, che è un guardare l’altro/a per avere il coraggio di guardarsi per ciò che veramente si è, al di là di ogni maschera indossata.

I giovani scelgono «From Syria»

In chiusura del FIT Festival, la Giuria Giovani, composta da dodici giovani tra i 16 e i 21 anni, in tandem con la Giuria dei Saggi ha decretato il vincitore del concorso Young&Kids, assegnando il Premio Infogiovani a From Syria: Is This a Child? di Miriam Selima Fieno e Nicola di Chio in quanto «Esempio di teatro documentario che oltre a trattare temi di assoluta attualità, troppo spesso dimenticati, tenta anche un audace confronto tra dolore privato e tragedia di popoli e trasmettendo trasmesso un forte messaggio di generosità, autenticità e coraggio, nel presente verso l’avvenire».