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Quando Milano strappò Bellinzona dalle mani degli svizzeri

Carlo Silini ha intervistato lo storico Marino Viganò che ci accompagna nel ricordo della battaglia di Arbedo, una pagina di storia, di armi e di sangue in terra ticinese che molti hanno dimenticato
Carlo Silini
28.05.2022 06:00

Celebrare gli anniversari bellici – lo abbiamo visto con quello della sconfitta dei nazisti lo scorso 9 maggio – significa riaprire antiche ferite ed assistere a narrazioni diverse della stessa realtà. Così, rievocare la battaglia di Arbedo, avvenuta il 30 giugno di 600 anni fa, non significa soltanto riaffermare l’importanza di eventi passati, ma riscoprire le tracce della grande storia, la sua retorica, perfino le sue clamorose fake news, nel nostro territorio. Lo storico Marino Viganò ci accompagna nel ricordo di una pagina di storia, di armi e di sangue in terra ticinese che molti hanno dimenticato.

Marino Viganò, partiamo dal contesto della battaglia di Arbedo: cos’è utile sapere per capire l’accaduto?

«Lo scontro segna una tappa nell’espansione dei confederati a sud delle Alpi. Allora la Lega, a 8 cantoni dal 1353, s’estende sull’altopiano tedescofono, escluse Decanìe vallesane, Leghe grigie, territori del Ticino: un’alleanza con grandi differenze tra sito e sito, città e vallate, aree rurali e montane, senza né politica, né interessi, né eserciti comuni. Perciò quella marcia, facilitata più che altro da circostanze e periodi di relativa debolezza del ducato di Milano, spesso incoerente, senza obiettivi chiari, finisce per durare centovent’anni dal 1403 al 1521, tra successi e disfatte fortuiti, come appunto Arbedo».

Vi fu, quindi, un tempo in cui gli svizzeri erano temibili conquistatori. La battaglia di Arbedo segnò qualche decennio di pausa nella loro espansione verso sud. Qual era il loro progetto?

«Mira degli Orte dell’area svevo-elvetica, Sottoselva, Svitto e Uri, è dominare le vie commerciali del Lucomagno, San Bernardino, San Gottardo per accedere in modo agevole ai ricchi mercati di Varese, Como, Milano, dove smerciare i propri prodotti. Un’avanzata limitata ai corridoi del Verbano, Ceresio e Lario, sapendo di non potere strappare alla potente signorìa dei Visconti e degli Sforza i centri urbani. Approfittando delle difficoltà alla morte di Gian Galeazzo Visconti nel 1402, e dopo l’assassinio del successore Giovanni nel 1412, i tre Cantoni forestali riescono intanto a occupare la valle Riviera sino a Claro nel 1403, le valli Ossola, Maggia e Verzasca nel 1410, e a farsi cedere dai baroni von Sax di Mesocco, che l’avevano conquistato pure nel 1403, il sito di Bellinzona nel 1419. Contro la leggenda di una Confederazione soltanto difensiva, in effetti tali avanzate hanno carattere nettamente offensivo, perdipiù in territori cisalpini, oltre la barriera pure etnica delle Alpi».

Perché la riconquista di Bellinzona diventa così vitale per Filippo Maria Visconti, duca di Milano?

«Il borgo sta allo sbocco delle strade internazionali fra l’area sveva e quella lombarda, sbucando quelle di Blenio a Biasca, di Leventina a Pollegio, di Mesolcina a Lumino a ridosso dello snodo verso il porto lacuale di Locarno su un lato, il Ceneri e il Vedeggio verso Ponte Tresa sull’altro. Bellinzona non per nulla è fortificata almeno dal IV secolo, il “castrum Bilitionis” longobardo è citato dal cronista franco Grégoire de Tours nel VI, torri sorgono nell’area del Castelgrande nel IX, la piazzaforte imperiale è sviluppata dal X, quella comasca e milanese dal XIII. Per il nuovo duca Filippo Maria, confrontato a gravi perdite territoriali a est e sud, causate dalle repubbliche di Venezia e di Firenze, si tratta di bloccare lo sfaldamento dello stato e, se fattibile, riprendersi i chiavistelli principali ai confini».

Ma gli svizzeri non intendevano cedere Bellinzona e il Visconti affidò le operazioni al condottiere passato alla storia col soprannome «Carmagnola». Chi era, come mai era così famoso?

«Francesco Bussone, nativo di Carmagnola, a sud di Torino, è sperimentato soldato di ventura, salito in fama nelle fila del condottiere Facino Cane – la cui vedova andrà in sposa, per inciso, a Filippo Maria. Costui, all’uccisione del fratello Giovanni, grazie al “Carmagnola”, come ora è detto, riottiene Milano nel 1412, Monza nel ’13, Lodi nel ’16, Alessandria nel ’15, Trezzo nel ’17, Piacenza nel ’18, Bergamo nel ’19, Cremona nel ’20, Brescia e Genova nel ’21. Avendogli riconquistato i dominî in un decennio, va da sé sia designato da Filippo a riconsegnargli pure i territori attorno a Bellinzona».

Come erano composti i due fronti bellici?

«Per quanto si sa da documenti e cronache, si fronteggiano un 5.000 cavalieri e 11.000 fanti del ducato di Milano e circa 4.000 fanti dei Cantoni Lucerna, Sottoselva, Uri, Zugo, al solito senza cavalleria. Una notevole disparità di forze sin dall’inizio, con un’inevitabile ricaduta nei risultati dello scontro, benché l’ammontare dei caduti si calcoli sia nella parità, circa 1.000 fra i milanesi e circa 1.300 tra i confederati».

Come si svolse la battaglia?

«Sono due gli episodi distinti. Il primo vede la rapida riconquista della piazzaforte di Bellinzona, il 4 aprile 1422, e gradualmente dell’Ossola, Maggia, Verzasca. Il secondo, invece, il tentativo dei confederati di tenere almeno la Leventina, se non rioccupare Bellinzona. In questa fase, come in altre della storia elvetica del tempo, si registrano più disaccordi che concordia tra i cantoni, e la decisione di alcuni, fra essi Berna e Zurigo, di non volerne sapere di spedizioni oltre i monti. Il 24 giugno le forze svizzere sono avanti Bellinzona. Subito un’aliquota si porta a saccheggiare la Mesolcina, rappresaglia del mancato sostegno dei von Sax. Constatato questo indebolimento ulteriore delle schiere nemiche, il “Carmagnola” il 30 guida l’armata milanese fuori la fortezza e la scaglia sul campo svizzero».

Perché, alla fine, gli svizzeri persero?

«In parte, come accennato, per la disparità di forze e il poco coordinamento anche fra quelle in campo. In parte, come in altre occasioni – celebre l’episodio di Marignano – per la discordia politica alla radice delle campagne, cioè l’assenza di obiettivi condivisi dall’unanimità della Lega svizzera, quanto comporta le mosse solamente di una parte della Confederazione tra l’ostilità o l’indifferenza della restante».

Che conseguenze ebbe, sui due fronti, la battaglia di Arbedo?

«Per il ducato di Milano la vittoria comporta il riassetto – momentaneo, ma allora nessuno può saperlo – pure nelle valli; per la Lega elvetica la disfatta segna l’arretramento – momentaneo a sua volta – dalle conquiste del ventennio precedente. Presto comunque gli urani, ben accetti ai popoli di Leventina medesimi con i quali condividono gli interessi commerciali, vi torneranno, de facto dal 1439, de jure dal 1480».

Cronache, come quella del Morone, portano episodi sovrannaturali, come l’apparire di una croce in cielo. Andrea Biglia racconta di uno svizzero che seguita a battersi pur trafitto da una lancia. Nel Libro Bianco di Sarnen, la vittoria milanese si tramuta in confederata: un mix di propaganda e fake news. Com’è possibile? Quanto le cronache sono attendibili?

«La presenza del soprannaturale è una costante per genti accostumate, in un’età pre-scientifica, a vederlo dovunque. E che dire del nostro tempo? Non mi pare che durante l’attuale epidemia siano girate superstizioni meno strambe. Quanto alle cronache, occorre distinguere perlomeno quelle private – non destinate alla pubblicazione – da quelle pubbliche, intese a custodire una storia “di Stato”. In ogni caso, nel lavoro storiografico è prassi raffrontare le fonti, incomplete o parziali già per loro natura».

Si può dire che la rivincita di Arbedo fu la battaglia dei Sassi Grossi a Giornico, vinta dagli svizzeri nel 1478?

«Arduo far paragoni. Arbedo è scontro di eserciti, Giornico un episodio sfaccettato: dal profilo strategico il ducato di Milano ha un governo fragile, scosso da faide tra gli Sforza, trovandosi a soffocare rivolte sin a Genova; da quello tattico l’assedio di Bellinzona è ancora breve, appena due settimane, e solo l’inseguimento degli elvetici in ritirata da parte dei ducali, affondati nella neve, quel 28 dicembre 1478, porta al disastro, causato dalla retroguardia dei leventinesi: con 50 caduti fra questi e 1.500 fra i milanesi, si direbbe sconfitta creata da circostanze fortuite per gli uni, vittoria inaspettata per gli altri, indipendente dalle forze sul terreno, comunque più dei leventinesi che degli svizzeri».