CorrierePiù

«Siamo tutti membri della stessa astronave, trattiamola bene»

L'astronauta Kathryin Sullivan, unica persona nella storia ad essere stata nello spazio e nel punto più profondo degli oceani, ci racconta delle sue avventure e parla dell'emergenza climatica
Mattia Sacchi
26.03.2022 06:00

Il fascino dello spazio ha sempre attratto tutti noi, ma sono in pochi a poter dire di esserci stati. Ad aver osservato la Terra sia dall’orbita che dal punto più profondo dell’oceano c’è però solo una persona: Kathryn Sullivan. L’astronauta statunitense è stata fra i protagonisti dell’edizione 2022 di «Legends of Space», convegno organizzato da Swiss Apollo, associazione che raccoglie gli svizzeri che hanno dato un loro contributo nelle missioni spaziali.

Kathryn Sullivan, è stata una delle Legends of Space invitate a Zurigo da Lukas Viglietti, presidente di Swiss Apollo…
«Sono molto contenta di essere stata invitata: per me e per i miei colleghi relatori è stato come partecipare a una riunione di classe, dove poter raccontare aneddoti ed esperienze vissuti nei nostri viaggi. Speriamo anche di essere stati di ispirazione per tante persone che hanno ancora voglia di sognare in grande e per le quali nessun obiettivo è impossibile, se lo si persegue con volontà e determinazione».

Chi è stato nello spazio ha parlato dell’Overview effect, il cambiamento cognitivo nel quale, a causa dell’osservazione della Terra dall’orbita, i confini svaniscono e i conflitti che dividono le persone diventano meno importanti. Lei ha mai vissuto questo effetto, specialmente in questi giorni di tensioni internazionali?
«Quando si arriva nello spazio si ha improvvisamente una vista della Terra totalmente inedita, radicalmente diversa da qualsiasi altra vista tu abbia mai avuto. È un’esplosione di sensi, che inevitabilmente cambia la percezione delle cose: a volte guardi dall’oblò e vedi solo una vasta fascia di continente, dove i confini non esistono. Tuttavia è comunque possibile vedere la mano dell’uomo e di come sia intervenuta a seconda di dove vive: da appassionata geografa e geologa potevo vedere chiaramente la differenza tra California e Messico a seconda del diverso colore delle acque dell’Oceano Pacifico, o quello tra Stati Uniti e Canada per la differente disposizione dei terreni agricoli. Anche i confini più ostili, come quelli tra i Paesi arabi e Israele. Il fatto è che, al di là dell’incredibile impatto che si prova osservando il nostro pianeta dallo spazio, il nostro cervello è abbastanza sviluppato da riconoscere degli schemi contrapposti che ci fanno visualizzare una linea che, anche se non è effettivamente incisa sul terreno, possiamo distinguere. Quello che per noi astronauti appare però chiaro è come siamo tutti membri di un equipaggio sulla stessa astronave».

Kathryn Sullivan con la tuta da astronauta della NASA. © NASA
Kathryn Sullivan con la tuta da astronauta della NASA. © NASA

Un’astronave che sembra messa in pericolo da noi stessi, vista l’emergenza climatica ormai diventata la grande sfida globale da affrontare. Lei è membro del National Science Board e della National Oceanic and Atmospheric Administration per il Governo americano: la situazione è grave come viene denunciata?
«Per continuare con la metafora, l’astronave Terra ha accesa una spia di emergenza piuttosto visibile, ma sono in tanti a non volerla vedere e a far finta di nulla… Stiamo lentamente procedendo verso il punto di non ritorno, con il rischio di accorgerci della gravità della situazione solo quando sarà troppo tardi. C’è bisogno di informare e creare una coscienza sociale, prima che le conseguenze prendano il sopravvento. Perché, da un punto di vista fisico, non c’è alcun dubbio scientifico che siamo di fronte a un’emergenza globale».

La soluzione sarà di colonizzare un altro pianeta, magari nelle prossime missioni su Marte?
«Dobbiamo renderci conto che viviamo su un pianeta straordinario, di cui oggi siamo gli amministratori. E di fronte a un problema cosa facciamo, alziamo le mani e cerchiamo un surrogato della Terra dove andare a vivere? Peraltro, per poi scoprire che l’alternativa non è certo un paradiso e comporterà sfide molto più gravose di quelle che si sarebbero potute risolvere qui. Francamente trovo amorale il punto di vista di chi, come Elon Musk, ha ipotizzato questa soluzione, considerato che le persone che avranno la possibilità di fuggire, se del caso, non saranno tutte ma solo un ristretto numero di ricchi, alcuni dei quali magari tra i responsabili dell’emergenza climatica che sta mettendo in pericolo il pianeta».

Un ritratto recente di Kathryn Sullivan © Wikipedia
Un ritratto recente di Kathryn Sullivan © Wikipedia

La sua espressione «viviamo in un pianeta straordinario» è particolarmente affascinante…
«La Terra è la macchina più straordinaria che abbia visto nella mia vita: la cosa che ho apprezzato di più dallo Spazio è stata vedere i macro meccanismi del nostro pianeta: dalle sottili strutture dell’aurora ai temporali che potrebbero interessare la metà di un continente: c’è un’armonia di fondo sconvolgente. Se un ingegnere o uno scienziato avesse solo potuto immaginare una struttura del genere, avrebbe certamente vinto numerosi premi Nobel e sarebbe celebrato in tutto il mondo. E noi invece diamo per scontata tutta questa meraviglia».

Una meraviglia che lei ha visto sia dallo spazio che dalla Fossa delle Marianne, dove ha raggiunto il punto più profondo dell’oceano, in inglese chiamato Challenger Deep.
«Quando ero a 11.000 metri sotto il livello del mare, dove sembra che non ci sia nulla, ho realizzato come in realtà non esista alcun essere vivente, dal più piccolo batterio al più grande mammifero, che non sia intimamente connesso a tutti gli altri. Semplicemente molte di queste connessioni a volte sono troppo sottili per essere percepite dagli esseri umani. Ma questo non vuole dire che non esistano, dobbiamo solo smettere di fingere inconsciamente che non ci siano. La convinzione di essere noi al centro dell’Universo è semplicemente una visione arrogante e ingannevole. E questo emerge in certe condizioni estreme».

Dallo spazio al Challenger Deep, lei è la persona più verticale del mondo. Cambia qualcosa nella preparazione per due spedizioni così agli antipodi?
«La grande differenza è stata il livello di responsabilità e pertanto dell’addestramento che ho dovuto affrontare prima di partire. Quando sono andata in orbita avevo importanti responsabilità tecniche per l’utilizzo di attrezzature molto complicate, nelle profondità della Terra accompagnavo il pilota Victor Vescovo in qualità di scienziata, alla quale non veniva richiesto di padroneggiare tutti i sistemi del sommergibile Limiting Factor, che è comunque più semplice di uno Space Shuttle. La similitudine che mi ha maggiormente impressionato è invece l’ingegneria che c’è dietro i veicoli con cui ho raggiunto questi estremi: in fondo hanno lo stesso scopo, quello di metterci in sicurezza, che sia dalla forza dell’acqua o da quella dello spazio».

Non sento la necessità di rivendicare i miei successi, anche se mi rendo conto che essere stata la prima statunitense a passeggiare nello spazio e la prima donna a raggiungere il Challenger Deep possa essere enfatizzato da alcune persone

Cosa significa per lei essere l’unica persona nella storia dell’umanità ad aver fatto sia una passeggiata nello spazio sia ad aver raggiunto il punto più profondo degli abissi?
«Non sento la necessità di rivendicare i miei successi, anche se mi rendo conto che essere stata la prima statunitense a passeggiare nello spazio e la prima donna a raggiungere il Challenger Deep possa essere enfatizzato da alcune persone. Però, non è mai stata una motivazione che mi ha spinto nel mio percorso, perché in realtà, quando vivi quelle esperienze, non pensi di essere la prima o la cinquecentesima persona. La differenza è davvero minima: se qualcuno ha già realizzato quelle imprese, puoi trarre lezioni che possono aiutarti a prepararti, se invece sei il primo, stai aprendo nuovi orizzonti».

Ma una persona che ha vissuto esperienze come le sue, che sfide può ancora immaginare di affrontare?
«Nonostante non mi ritenga una persona adrenalinica, che cerca ad ogni costo l’impresa per il mero gusto di farla, è la curiosità che mi guida e mi spinge a trovare un modo con cui io possa contribuire ai macro temi globali, come appunto l’emergenza climatica. E quella sì che è una sfida da vincere assolutamente».

L’8 marzo si è celebrata la giornata internazionale della donna. Lei è stata inserita tra le personalità più influenti al mondo sia dal Time che dalla BBC: cosa vorrebbe dire alle donne?
«Che questo pianeta ha un grande bisogno dei migliori talenti e delle migliori idee. E ogni donna vive in un’epoca in cui può dare attivamente il suo contributo e farsi valere. Quando sei nello spazio devi lavorare con tutti i membri dell’equipaggio: in situazioni così estreme non conta essere il comandante o l’ultimo arrivato, essere uomini o donne, ma la qualità delle proposte e delle soluzioni per risolvere problemi che altrimenti potrebbero essere fatali alla missione e alle vite di tutto il gruppo. Per questo vorrei ricordare a tutte le donne che anche loro sono membri di un grande equipaggio in questo grande viaggio che è la nostra umanità: fidiamoci delle nostre voci, ascoltiamo le nostre idee e aiutiamoci a vicenda».

Saga famigliare fra grandi altezze e buio degli abissi

di Nicola Bottani

C’è una famiglia svizzera che nel corso del Novecento e nel nuovo millennio ha segnato tappe fondamentali nell’ambito delle esplorazioni. È quella dei Piccard, che di padre in figlio si sono lanciati nello sviluppo di tecnologie grazie alle quali hanno raggiunto sia le grandi altezze sia il buio degli abissi marini.

I voli nella stratosfera
Il progenitore Auguste (nato nel 1884 e morto nel 1962) era un brillante scienziato, così come il fratello gemello Jean. Considerato fra i fisici più importanti della sua epoca, Auguste Piccard inventò la navicella sferica pressurizzata che appesa a un pallone aerostatico gigante gli permise di raggiungere la stratosfera per primo al mondo, per onor di cronaca insieme a un compagno d’avventura, ossia Paul Kipfer.

Auguste Piccard. © Keystone
Auguste Piccard. © Keystone

Correva il 1931 e il 27 maggio i due decollarono da Augusta, in Germania, raggiungendo l’altezza record di 15.781 metri sul livello del mare. Un primato poi battuto dallo stesso Auguste Piccard l’anno successivo, stavolta insieme a Max Cosyns. Partiti il 18 agosto dall’aerodromo zurighese di Dübendorf, sorvolarono le Alpi e raggiunsero una quota di 16.201 metri, per poi atterrare nei pressi del Lago di Garda. Avventure, queste, che erano state intraprese da Auguste Piccard principalmente per raccogliere dati sugli strati più alti dell’atmosfera terreste e sui raggi cosmici.

Le profondità dei mari
Successivamente Auguste Piccard, sfruttando ancora il principio della sfera metallica pressurizzata per ospitare un equipaggio umano, si dedicò allo sviluppo del batiscafo, mezzo progettato e costruito per raggiungere gli abissi marini.

Il batiscafo «Trieste» in una foto del 23 gennaio 1960. © Keystone
Il batiscafo «Trieste» in una foto del 23 gennaio 1960. © Keystone

Dopo le prime immersioni con il batiscafo FNRS 2 nel 1948 al largo di Dakar, ecco quindi la nascita in Italia del Trieste, grazie anche al contributo di Jacques Piccard, ingegnere e figlio di Auguste. I due Piccard il 30 settembre del 1953 si immersero al largo dell’Isola di Ponza fino a una profondità di 3.150 metri, sino ad allora impensabile per un mezzo costruito dall’uomo. Questo, però, fu solo il preludio di un ulteriore, mirabile passo.

Jacques Piccard. © Keystone
Jacques Piccard. © Keystone

Il 23 gennaio del 1960 Jacques Piccard con il Trieste, nel 1958 venduto alla Marina militare statunitense, si immerse nella Fossa delle Marianne, insieme a Don Walsh, ufficiale della stessa US Navy. La Fossa delle Marianne, situata nell’Oceano Pacifico fra Giappone, Filippine e Nuova Guinea, è conosciuta come la depressione oceanica più profonda al mondo e l’equipaggio composto da Jacques Piccard e Don Walsh vi raggiunse una profondità di 10.916 metri.

Le imprese più recenti
La saga famigliare dei Piccard esploratori è poi proseguita con Bertrand, figlio di Jacques. Nato nel 1958 e laureato in psichiatria, Jacques ha ripercorso nei cieli le orme del nonno. Il 21 marzo del 1999, atterrando in Egitto 19 giorni, 21 ore e 55 minuti dopo la partenza dalla località vodese di Château-d’Oex, insieme all’aviatore britannico Brian Jones è diventato il primo uomo ad aver fatto il giro del mondo senza scali su un pallone aerostatico. Dopo di che, fra il marzo del 2015 e il luglio del 2016, con il copilota André Borschberg, svizzero pure lui, ha firmato il primo giro del mondo a tappe con un aeroplano a propulsione solare.

Bertrand Piccard. © Keystone/Christophe Bott
Bertrand Piccard. © Keystone/Christophe Bott
In questo articolo: