Teatro

«Bisogna volersi bene, altrimenti finisce l’umanità»

L'intervista all'attore Silvio Orlando, protagonista a Locarno de «La vita davanti a sé»
©giannibiccari.it
Mauro Rossi
02.12.2022 09:16

Con una cinquantina di film e una lunga serie di produzioni tv all’attivo, Silvio Orlando è uno dei volti più conosciuti e apprezzati dello schermo italiano, per l’intensità delle sue interpretazioni nelle quali non manca mai di instillare un tocco di ironia partenopea. Nel weekend l’attore sarà in scena al Teatro di Locarno (sabato alle 20.30, domenica alle 17.00) con La vita davanti a sé, pièce tratta dal’omonimo romanzo di Romain Gray dal quale un paio di anni fa è stato tratto anche un film di successo interpretato da Sofia Loren. Lo abbiamo incontrato.

Alla luce della sua sconfinata filmografia siamo abituati a pensare a lei come ad un attore di cinema saltuariamente prestato al teatro. Invece, recentemente, ha tenuto a ribadire il contrario: ossia che si sente principalmente un attore teatrale che fa «anche» del cinema...
«È, vero. Infatti ritengo che come formazione, come modo di ragionare o di rapportarmi alla professione, io sia prima di tutto un attore di teatro. Teatro che è stato più importante e determinante, dal profilo formativo, del cinema per me. Ed è dal teatro che sono partito per arrivare al cinema e non viceversa come molti credono...».

È indubbio tuttavia che sia stato il lavoro davanti ad una cinepresa ad aver marcato in modo indelebile sua carriera...
«Più che altro il fatto è che il cinema ha una visibilità superiore e vampirizza tutto il resto. E dunque la mia attività teatrale – che ho portato avanti con regolarità per tutta la vita – ha avuto un impatto enormemente inferiore. Però io sotterraneamente, in maniera quasi clandestina, ho sempre continuato e alimentato questo mio rapporto d’amore con il teatro, che per me rappresenta non solo un piacere ma un’autentica necessità».

Teatro dove, in questo periodo, è impegnato appunto con un testo impegnativo quale La vita davanti a sé. Come è nata l’idea di affrontarlo e soprattutto perché in forma di monologo?
«Non sono io ad aver scelto questo testo: è stato lui a scegliere me. Mi ci sono imbattuto – come spesso succede nei grandi amori – un po’ casualmente quando, nel 2017, fui chiamato a fare una lettura del romanzo al Festival della spiritualità di Torino. E da quel momento non mi ha più abbandonato. E portarlo in scena è stata una cosa che ho sentito il dovere di fare. E ho scelto la forma del monologo in quanto si tratta di un romanzo talmente visionario, che cercare di farne un allestimento ne avrebbe ridotto l’impatto. Invece attraverso la potenza della parola che stimola l’immaginazione del pubblico è possibile entrare nei mondi più diversi. Non va dimenticato inoltre che si tratta di un testo che ha quale punto di vista assoluto quello di un bambino di 10 anni, quindi con tutto il contorno di magia e di fantastico che può avere un che può avere un ragazzino di quella età».

Due anni fa La vita davanti a sé è tornato ad essere, trent’anni dopo il primo adattamento, un film di successo, interpretato da Sofia Loren. Questa produzione ha mutato la sua percezione del testo oppure no?
«Quel film per noi ha rappresentato solo un incidente di percorso. Nel senso che è dal 2017 che ci stiamo dedicando al progetto e abbiamo debuttato nel 2020, ancora prima che del film iniziassero le riprese. E quindi sono due cose parallele, che non si sono né toccate né influenzate. Anche se, sinceramente, ritengo che il cinema non abbia mai fatto un buon servizio a questo romanzo».

Ma cosa ci insegna la storia di questo bambino che lei racconta da adulto che rivive la propria infanzia?
«Diciamo che principalmente si tratta di una storia d’amore tra un bambino arabo, musulmano, orfano e una donna ebrea, che si porta dietro la drammatica esperienza del campo di concentramento e che si trova al crepuscolo dei suoi giorni. Ed il loro è un amore che prevale su tutto. Il romanzo e anche lo spettacolo finiscono infatti con la frase “Bisogna voler bene”: quasi un imperativo perché il bene, alla fine, deve vincere. Altrimenti finisce l’umanità. Un bene che deve trovare modo di manifestarsi anche davanti a grandi sfide come quella delle migrazioni. Un fenomeno che, a pensarci bene, non è neppure legato esclusivamente alla contemporaneità: l’umanità infatti non sta mai ferma, a turno migriamo tutti, siamo tutti migranti. Dobbiamo solo far diventare, come sempre è successo, questa sfida un’enorme e meravigliosa opportunità».

Abbandoniamo per il momento il teatro e torniamo al cinema. Lei in carriera ha recitato in una lunghissima serie di film e con tanti, importanti registi: c’è qualcosa di questo lungo percorso che le è rimasto particolarmente nel cuore?
«Scegliere un regista o un film è un’operazione difficile perché ogni cosa che ho fatto e ogni regista o attore con cui ho avuto a che fare mi ha lasciato dentro qualcosa. Se però devo scegliere un film direi La scuola (di Daniele Luchetti, 1995 n.d.r.) che ritengo il film più importante che lo fatto. Perché è quello con il quale sono arrivato a tutti – cosa che ritengo sia uno degli obblighi etici del nostro mestiere – senza perdere di vista il mio gusto, il mio modo di vedere il mondo. All’interno di quel film inoltre c’era anche una mediazione tra il gusto del pubblico più popolare e l’idea di far passare un messaggio importante. La scuola è stato anche il film che è durato di più nel tempo, che è rimasto nella memoria delle persone, anche come indicazione non solo per gli addetti ai lavori, i professori, ma anche per i più svantaggiati, gli ultimi, perché si parlava comunque di un quartiere di Roma, di una borgata nella cui realtà tanti potevano identificarsi».

Se La scuola è stato il lavoro che l’ha lanciata al cinema, in tv a renderla famosa è stata invece una serie, Zanzibar, da lei realizzata in Ticino, a Riazzino, negli anni Ottanta. Che ricordo ha di quell’esperienza?
«Quello di una stagione molto felice, anche per i risultati che ha dato in seguito ai suoi protagonisti. Venivamo tutti da uno spettacolo teatrale, Comedians del Teatro dell’Elfo: un gruppo (del quale facevano parte, tra gli altri Claudio Bisio, Antonio Catania, Gigio Alberti, Angela Finocchiaro, Cesare Bocci, Davide Riondino, ecc..) da cui sono venute fuori tante belle storie. Ricordo che è stato complesso lavorarci: trascorrevamo infatti le giornate esclusivamente le nostre camere d’albergo e gli studi della Polivideo, che se non rammento male erano posizionati vicino ad un inceneritore. Una situazione insomma quasi monastica. Però il clima era molto goliardico, divertente, eravamo tutti amici e riuscivamo a sopperire a quel periodo di totale isolamento dal mondo. E poi c’erano eccellenti rapporti con le maestranze locali (tecnici, fonici, truccatori ma anche comparse) e con gli abitanti del posto che culminarono con una grande sfida di calcio Svizzera-Italia tra noi attori e gli indigeni».

Un attore versatile e pluripremiato

Nato a Napoli il 30 giugno 1957, Silvio Orlando ha iniziato la carriera nella scena teatrale partenopea, per poi passare al cinema, lavorando in una cinquantina di film con registi quali Nanni Moretti, Daniele Luchetti, Paolo Virzì, Michele Placido, Carlo Mazzacurati, Pupi Avati e Gabriele Salvatores. In tv il debutto, negli anni Ottanta, con la sit-com Zanzibar cui sono seguiti altri programmi sia di varietà, sia di fiction. Tra le più recenti The Young Pope (2016) e The New Pope (2020) di Paolo Sorrentino. Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile nel 2009 alla Mostra di Venezia per il film Il papà di Giovanna, in bacheca Orlando ha pure 3 David di Donatello, 3 Nastri d’argento, 2 Globo d’oro e 2 Ciak d’oro.

Lo spettacolo

Adattamento del romanzo omonimo scritto dal francese Romain Gary, sotto lo pseudonimo di Émile Ajar La vita davanti a sé racconta la storia di Momò, bimbo arabo di dieci anni che vive nel quartiere multietnico di Parigi-Belleville nella pensione di Madame Rosa, anziana ex prostituta ebrea. Un romanzo che racconta di vite sgangherate che vanno alla rovescia, ma anche di un’improbabile storia d’amore toccata dalla grazia. Nella pièce Silvio Orlando conduce dentro le pagine del libro con la leggerezza e l’ironia di Momò diventando, con naturalezza, quel bambino nel suo dramma.