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Alice: «A 13 anni cancro, chemio e calvizie, ecco come mi sono risollevata»

La testimonianza raccolta da Carlo Silini ci racconta una storia di resurrezione
Carlo Silini
16.04.2022 06:01

Non tutte le guerre sono visibili come quella in Ucraina. Molte, più di quante ne immaginiamo, avvengono nella sfera intima e privata delle persone e il mondo esterno non se ne accorge. O se ne accorge poco. Come nel caso delle malattie gravi. Alice aveva 13 anni quando ha scoperto di avere un cancro. Oggi ne ha 17 e ha una voglia incontenibile di raccontare la sua personalissima guerra e la sua sofferta vittoria. Una storia di resurrezione.

Capelli per aria, tra il rosa e il viola, giacca tipo lana di pecora rigorosamente rosa, come la mascherina, occhi vivaci e parlantina sciolta, Alice appare subito consapevole di sé. «Non capita spesso che gente della mia età ne parli e mi piacerebbe raccontare la mia storia in prima persona». E infatti, da qui in avanti è lei a parlare, non servono domande e risposte. «Tutto parte nel 2018, anno indimenticabile, siamo a gennaio. Avevo 13 anni, frequentavo le medie a Bellinzona. Ero a sciare con il resto della famiglia. Succede che comincio a grattarmi le gambe, come per il prurito delle punture di zanzara. Passa un mese e a febbraio i fastidi si moltiplicano: oltre al prurito che non si ferma mai e anzi è sempre più forte, comincio a sentirmi stanca verso sera. In marzo peggio ancora».

All’inizio non si capisce nulla

«Succede un sabato, alle 5 del pomeriggio», aggiunge. «Mia mamma mi sgrida: perché continui a grattarti? Smettila, controllati! Oggi si sente male per questo. Col senno di poi, però, è chiaro che non poteva saperne nulla. Del resto, trovava le lenzuola piene di sangue. Fatto sta che chiama il pediatra, in teoria attivo 24 ore su 24, ma quando arriviamo il pediatra non c’è. Al suo posto troviamo una delle sue assistenti, una ragazza che non ha capisce cosa sta succedendo e ci prescrive una pomata».

Ovviamente non serve a nulla, «anzi il rossore aumentava. Infatti, e siamo ad aprile, finiamo dal dermatologo. Mia mamma aveva fatto qualche ricerca su Internet e digitando “prurito” era uscito per la prima volta il risultato “linfoma di Hodgkin”, una forma piuttosto rara di tumore del sistema linfatico, ma abbastanza frequente nella fascia di età tra i 15 e i 35 anni. Quando però aveva chiesto al dermatologo se potesse essere quella la causa del mio disturbo si era sentita rispondere di toglierselo dalla testa, che non avevo niente di grave».

«Ero piena di macchie»

Facciamo un passo indietro, torniamo al prurito. «Sì, è partito dalle gambe per poi passare alle mani, alle braccia, alla faccia: avevo tutto il corpo che prudeva. Facevo di tutto per non grattarmi ma non ci riuscivo, lo sentivo su tutto il corpo, anche sotto, e di conseguenza mi grattavo dappertutto appena potevo. Solo a scuola mi tenevo un po’. Andavo a cambiarmi in bagno: mettevo i calzettoni per non far vedere le croste sulle gambe ai compagni. Ero piena di macchie, anche in faccia. E nel 2018 non giravano ancora le mascherine!».

La diagnosi

Ripartiamo dalle pomate inutili che hanno peggiorato lo stato della pelle. «Sì, oltre a quelle sono arrivate le pastiglie per tenermi calma. A maggio andiamo dall’allergologo. Lì mi prelevano 12 fialette di sangue e il giorno dopo ci chiamano per dirci di andare subito a fare radiografia ed ecografia. Tre giorni dopo, nuova telefonata: ci convocano all’ospedale. Mia madre risponde che mi avrebbe portato a scuola e sarebbe venuta. Ma dall’altra parte della cornetta la risposta è: no, lei deve venire ora con Alice. Ero arrabbiata, non volevo perdere la scuola. Ma amen, bisognava farlo e l’abbiamo fatto. In realtà ero ancora tranquilla e rilassata. Solo che una volta lì è arrivato l’oncologo e ci ha mostrato la radiografia comunicandoci quello che avevo: una forma di tumore piuttosto raro per una ragazza, il linfoma “non-Hodgkin” che di solito colpisce gli uomini sopra i sessant’anni e che nel mio caso aveva preso l’intero torace. Nella radiografia si vedeva una macchia nera che copriva tutta l’area toracica. La guardavamo e chiedevamo: ma dov’è il cancro? Dappertutto dove vedete la macchia, ci aveva risposto. Sinceramente non avevo capito che si trattava di una cosa così grande. Neppure sapevo bene cosa fosse un linfoma».

L’inizio di un altro percorso

La reazione? «Sì, ho pianto per l’atmosfera che si era creata. Perché naturalmente l’oncologo ci aveva spiegato che nei mesi successivi la vita non sarebbe stata facile, che ci sarebbero stati molti esami medici. Sul momento la cosa che mi irritava di più era che avevo previsto, nei mesi successivi, di andare a diversi concerti, come Fedez e J-Ax, e temevo di doverci rinunciare. Poi ci sono comunque andata. La consapevolezza di cosa mi stava succedendo è arrivata dopo. Ricordo che quel pomeriggio ero andata a fare un aperitivo con gli amici e non mi sembrava il caso di dire loro cosa mi avevano diagnosticato».

Chiusa in ospedale

Una volta là, Alice decide di non uscire mai dall’ospedale. «Volevo farlo solo quando sarei andata a casa, del resto mi facevano i prelievi del midollo e altri interventi in vista dell’inizio della chemio. Alla prima chemio ho vissuto la sensazione più brutta di sempre. Nel momento in cui ho sentito il liquido entrare ho percepito come un vuoto, qualcosa di troppo strano. Non stavo bene, avvertivo la stranezza di questo liquido nuovo dentro di me che doveva restarci per cinque giorni di fila ventiquattr’ore su ventiquattro. Di fatto ero a letto attaccata per cinque giorni alle flebo. Potevo alzarmi e camminare con la stanga a cui erano appese le flebo, ma erano cinque giorni così. A cui seguivano tre settimane in cui stavo ferma, un giorno per fare gli esami, e poi ricominciava un nuovo ciclo di cinque giorni di chemio e altre tre settimane stando ferma e così via. Per otto volte».

E i capelli se ne vanno

Alice non si sente mai libera. «Ricordo che all’ospedale di Zurigo, dove ho fatto il primo ciclo (gli altri li ho fatti in Ticino), vedevo dalle finestre le persone che si divertivano, seguivo i miei amici sui social che facevano una vera vacanza. Molti mi scrivevano i classici messaggi: sei forte! Ce la fai! Ma a me, in quel momento e naturalmente a seconda delle persone che li inviavano, davano un po’ fastidio. Un fastidio che mamma e a papà non si aspettavano. Ma c’erano stati dei cambiamenti radicali e sentivo che le persone non mi guardavano più per come ero. Cominciavo a perdere i capelli. Il mio cuscino ne era pieno, e intanto prendevo le pastiglie regolarmente; cortisone e molte altre. Perché nella fase post-chemio devi assumere un sacco di farmaci per preservare il processo di guarigione».

«Perché proprio a me?»

A luglio la chemio si sposta a Bellinzona. «Stavo un po’ meglio, mi sentivo a casa e potevano passare a trovarmi le persone a me più vicine. Persone che c’erano, ci sono state e ci saranno sempre, penso. Mi faceva piacere, ma capivo anche che sia che fossero lì, sia che non ci fossero, per me non cambiava nulla. Ero nel mio tunnel e nessuno poteva tirarmene fuori. All’ospedale, cinque giorni su cinque non parlavo con nessuno. Non mangiavo, ero in una fase di continuo rifiuto. Era tutto un no, no, no! Ce l’avevo con tutti, anche con gli infermieri, i medici, i genitori, che ovviamente non ne potevano niente e, anzi, erano lì per curarmi. Ero a disagio per la situazione, per la paura, ma soprattutto perché mi chiedevo: ma perché proprio a me?».

Un ricordo che fa male

Ed ecco un ricordo che fa ancora male: «C’era una ragazza che aveva un anno più di me e anche lei stava lottando con una malattia più pesante della mia e anche da più tempo. Voleva frequentarmi, aveva bisogno di parlare, di condividere, aveva quattordici anni. Si era aggrappata un po’ a me. Ma ero in fase di rigetto. Non volevo vedere persone in quella situazione. Temevo che con lei avrei parlato solo di quello e non ce la facevo. Purtroppo, lei non ce l’ha fatta. E oggi sono molto dispiaciuta per la mia reazione. Oggi mi dico che pensare anche agli altri e non solo a sé stessi, anche in momenti difficili, è una cosa che va fatta. Lei non c’è più e non posso fare più niente».

Una vacanza speciale

Dopo il secondo ciclo di chemio Alice chiede e ottiene di andare in vacanza. «Sull’Isola d’Elba, la mia preferita. I miei genitori hanno dovuto organizzare le cose in modo che un medico venisse ogni giorno a farmi una puntura e un prelievo per tenere d’occhio i valori. Dovevo stare attenta a non prendere infezioni. Ogni mattina arrivava il dottore alle sette, faceva quello che doveva fare, portava il sangue in un laboratorio di analisi e via. Le vacanze sono volate così. Ho preso anche una leggera abbronzatura. Ma nel frattempo ero diventata completamente calva. Ma quella settima di mare in un qualche modo mi ha salvata mentalmente».

Il ritorno a casa precipita Alice nel mood di prima. «Stesse analisi, stesse chemio, stesse persone che mi scrivevano anche se io il telefono lo guardavo solo per seguire qualche storia su Instagram e far passare il tempo. Era agosto e di una cosa ero certa: in settembre volevo assolutamente tornare a scuola, anche facendo la chemio e interrompendo la frequenza solo in quei giorni. L’oncologo mi aveva detto: Alice, perderai un anno di scuola. Mi sono impuntata e, a parte i giorni della cura, la scuola non l’ho persa».

«Non avevo i capelli e i compagni mi osservavano. Era difficile prendere in mano la situazione. Tutti mi chiedevano perché ero calva, ma io non dicevo di avere una malattia, mi vergognavo. Non rispondevo, non ne avevo la forza (tranne con la cerchia più ristretta degli amici, che sapevano già). A un certo punto sono andata a vedere le parrucche, ne ho provata una, ma mi sentivo più ridicola di quello che già ero. Così usavo il cappellino con la visiera. Nel frattempo, andavano avanti le chemio. La prima volta sono riuscita ad andare a scuola dopo averla fatta, poi basta, ero troppo stanca e stavo a casa. Una mia amica mi portava i compiti. Quando andavo in classe, poi, non mettevo la mascherina che avrei dovuto indossare per proteggermi. Era il 2018 e nessuno la portava. Non la mettevo per non far vedere che ero malata…».

Tra i dettagli significativi di quel momento «c’era il fatto che non potevo più mangiare carne o pesce crudi (che adoro) per gli anticorpi. Dovevo solo mangiare cose per me, nei sacchetti».

La pelle fragile

A ottobre arrivano gli ultimi due cicli di chemio e un’altra gabola. «Sono caduta e, siccome la mia pelle era fragile, mi sono non solo sbucciata, ma distrutta. Ho fasciato le mani e le ginocchia. Quando ero addormentata e mi facevano l’epidurale, mia mamma mi toglieva i sassolini dalle ginocchia… Intanto pensavo che quelle sarebbero state le mie ultime chemio e mi dicevo che potevo farcela. Ma erano anche le più difficili perché nel frattempo il mio corpo si era indebolito. Poi è arrivata un’infezione alla gola che faceva malissimo. Non riuscivo neppure ad assumere lo sciroppo tanto faceva male. Sono finita all’ospedale anche se non dovevo fare la chemio. Ero a letto e avevo portato un sacchetto di sangue da Lugano. Insomma, credevo che non ce l’avrei fatta. Ogni tanto mi svegliavo e vedevo mio papà che leggeva un libro senza che le pagine andassero avanti, perché era fisso su di me. Ho fatto tre o quattro giorni di morfina, senza alzarmi mai dal letto, l’unico modo per placare il dolore. Venivano a trovarmi anche gli amici e mi facevano ridere, ma non potevo perché la gola mi faceva sempre male…».

Triste e arrabbiata

Qualche settimana dopo, finalmente l’ultima chemio. «Tutti mi incoraggiavano, ma mi sentivo triste e arrabbiata, pensavo: non capite quello che sto vivendo, non avete idea di cosa sia un tumore. Preferivo che mi trattassero come se stessi bene e avessi i capelli, il ciuffo rosa, l’Alice di sempre. Che fastidio, quelli che mi commiseravano!».

Fatta l’ultima chemio, sulla tavola tornano carne e pesce crudi. «Ma continuo a fare le ecografie e le PET: il tumore regredisce ma non scompare. E quindi a dicembre parte la radioterapia. Dovevo farla ogni giorno, ma non ne potevo più. Non volevo più perdere un giorno di scuola. Così mi sono organizzata per farla sempre durante la pausa pranzo. Durava una mezz’oretta, quindi era fattibile».

La voglia di raccontare

Il percorso di cura è durato quasi un anno «e forse ho capito quello che avevo passato quando tutto è finito. Solo allora mi sono resa conto che non tutte le persone escono vive da una simile situazione. Negli ultimi tre anni è poi successo che, come quando avevo la malattia, non avevo nessuna voglia di far sapere – sui social, per esempio – quello che stavo vivendo».

Ma da un anno a questa parte le cose sono cambiate. «Ho messo i primi post e i primi video su Instagram. Sentivo la necessità di raccontarmi. Non mi facevo quasi mai fotografare, ma qualche foto di quel periodo c’è e l’ho postata. Ho anche scritto parecchio. E c’è chi mi dice che gli sto dando tanto. Le attenzioni degli altri che prima mi infastidivano, adesso posso accettarle. Sono maturata, tra poco faccio i diciott’anni. Ho capito che anche le pacche sulla spalla possono aiutarmi. Mi danno coraggio. Perché la paura più grande, a dire la verità, ce l’ho adesso. Ogni tre mesi, quando devo fare gli esami, l’ansia resta alta».