Sull'isola dei cani di Wes Anderson

Il regista statunitense firma un gioiellino di animazione
Red. Online
30.04.2018 00:20

Per chi al cinema cerca qualcosa di originale, inaspettato, sorprendente – e d'autore –, il regista texano Wes Anderson non delude i suoi estimatori. È dotato di stile personale, riconoscibile e sottilmente umoristico, senza ripetersi. Dopo titoli come I Tenenbaum, Il treno per il Darjeeling, Moonrise Kingdom e il visivamente scoppiettante Gran Budapest Hotel, si tuffa ora nello stop motion (animazione con pupazzi e con la cinepresa che impressiona un fotogramma alla volta) con L'isola dei cani, da lui scritto, diretto e prodotto. Una distopica ma anche delicata fiaba ambientata nel Giappone del futuro dove nella città di Megasaki tutta la razza canina – domestici e randagi – colpita da una strana influenza, viene bandita dal sindaco e deportata su un'isola adibita a discarica. Sei mesi dopo, il ragazzino Atari (chiamato il Piccolo Pilota) atterra con un mini velivolo sull'isola, alla ricerca del suo cagnolino. Lo aiuteranno cinque (ex)cani alfa, ormai spelacchiati e intristiti.Anderson si era già avventurato nell'animazione stop motion con Fantastic Mr. Fox (2009) ma qui le ramificazioni del racconto sono molto più ampie e allegoriche sull'uomo e il suo migliore amico. Film d'apertura dell'ultima Berlinale, dove ha vinto l'Orso d'argento per la regia, L'isola dei cani vuole essere anche un omaggio alla cultura giapponese, o almeno a come la recepisce l'immaginario americano.I cani parlano in inglese (nella versione originale) o nelle altre lingue in cui il film è doppiato, mentre gli umani parlano giapponese e sono comprensibili solo talvolta, con escamotage narrativi come la presenza di un traduttore nelle riunioni ufficiali della città. Questo stratagemma pone lo spettatore immediatamente sulla lunghezza d'onda dei cani antropomorfizzati, staccandolo dall'immedesimazione con i personaggi umani. I flash back sono ostentati e sottolineati, altrettanto i riferimenti alla tradizione pittorica e cinematografica giapponese, da Ozu a Kurosawa, esplicitamente citato da Anderson nelle sue dichiarazioni. Tenero, buffo, malinconico, ma anche avventuroso, il tono del film tende ad un ironico straniamento costruito con cura dalla regia nella composizione di ogni immagine, con fantasia, creatività e una dose di artigianalità che conquista più di tanti effetti speciali. Un gioiellino bizzarro come lo era Grand Budapest Hotel, ma in modo completamento diverso. Questo si chiama stile: fedele alla poetica del suo autore ma ogni volta diverso.

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