L'intervista

«Un nuovo paradigma di socialità è la base per il nostro futuro»

A tu per tu con Franco Mussida che ha da poco pubblicato il concept album «Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu»
Franco Mussida, 75 anni. Ha iniziato la carriera dei «Quelli», poi divenuta «Premiata Forneria Marconi», con cui ha suonato per 50 anni.
Mauro Rossi
25.11.2022 06:00

Dici Franco Mussida e subito pensi alla PFM, il gruppo di cui per mezzo secolo è stato il leader. Eppure Mussida è molto di più: è un personaggio poliedrico che da sempre spazia attraverso le arti (musica, letteratura, pittura, scultura), che si dedica alla ricerca e all’insegnamento (ha fondato una delle più note scuole di musica di Milano) e che da quando, nel 2015, ha lasciato la band, ha intensificato queste sue attività sfociate in innumerevoli progetti. L’ultimo è Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu, un concept album che sabato alle 19.00, presenterà alla Treehouse di Tondo Music a Maroggia. Lo abbiamo incontrato.

Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu è un album musicale che fa parte di un progetto molto più ampio. E per certi versi insolito: è infatti nato come libro e solo successivamente è diventato un disco. Un percorso un po’ singolare per un musicista...

«È vero, però va detto che la realizzazione di questo disco inizialmente non era programmata. Nel 2015 quando sono uscito dalla PFM per badare alla mia scuola (il CPM Music Institute – ndr) e alle ricerche che da sempre mi affascinano sul rapporto tra il mondo del suono e la nostra struttura emotiva, ho intensificato il lavoro in tal senso, che è sfociato, nel 2019, in un libro, Il pianeta della musica, appunto che avrebbe dovuto chiudere il discorso. Poi però mi è capitato tra le mani uno strumento nuovo che mi ha spinto, un paio di anni fa, a proseguire il discorso anche dal punto di vista discografico. Ho quindi creato questo personaggio, Iòtu e l’ho fatto viaggiare assieme a me attraverso il tempo: da quando all’età di quattro anni appoggiando l’orecchio sulla cassa di un chitarra capisce che non sta semplicemente ascoltando della musica ma che gli si sta aprendo davanti un mondo nuovo a quando, crescendo, aumenta in lui la consapevolezza di questa nuova dimensione. E il disco è il racconto il tredici episodi di questo percorso di crescita e consapevolezza in cui attraverso Iòtu parlo del mondo del suono, della mia generazione e del presente. Il tutto attraversando vari continenti emotivi».

Ha citato uno strumento particolare che ha fatto scattare in Lei il desiderio di realizzare l’album. Ce ne vuole parlare?

«Si tratta di una chitarra baritona preparata da un liutaio di Verona, Marco Vignuzzi, al quale consegnai la mia Gibson Chet Atkins (una chitarra degli anni Novanta) il cui manico molto largo mi consente di suonare in polifonia, un po’ come si fa con un pianoforte. A lui chiesi se potesse fare in modo che con la stessa riuscissi anche a improvvisare utilizzando tutte le tecniche della chitarra elettrica e ritmica. Lui ha risolto la questione modificando l’accordatura e trasformando la chitarra in una sorta di violoncello dalle corde estremamente morbide che consentono di dare allo strumento anche l’espressività della chitarra elettrica. Ed è di questo strumento che mi sono innamorato e dal quale è nato il disco».

Disco che stilisticamente si potrebbe definire «prog» anche se so cha a Lei non piace lo si cataloghi in questo genere...

«Non è che non mi piace. Il fatto è che il “prog” ha un forte legame con il rock e con la rabbia, la ribellione le rivendicazioni che da sempre si porta appresso. Una dimensione questa che personalmente ho superato. Oggi io voglio dire le cose in maniera ferma, sincera, lucida, dritta ma senza incazzarsi (non ne vale la pena). Inoltre nel disco, oltre ad aver eliminato questa componente ho inserito alcune strutture (momenti parlati e recitati) che con il “prog” hanno poco a che vedere».

Tra i tanti elementi che compongono Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu c’è un durissimo j’accuse che lei lancia alla sua generazione affermando: «se non capiamo più quello che sta succedendo al mondo della musica, non è perché siamo diventati vecchi ma perché siamo stati degli stupidi egoisti. Ci siamo goduti quegli anni meravigliosi e non abbiamo restituito niente».

«In realtà si è trattato di un egoismo involontario: i nostri anni infatti non erano semplici da raccontare: è stato più semplice viverli accumulando tanta energia. La stessa che ci consente ancora oggi di mantenerci vivi e vegeti in questo mondo che molti sentono un po’ noioso, finto, perché è tutto virtuale mentre noi siamo abituati a toccarci a guardarci negli occhi, a scambiare le emozioni per contagio fisico. Ed è questo aspetto che non siamo riusciti a trasmettere adeguatamente. Però abbiamo ancora tempo per farlo, per esprimere la bellezza di quel periodo e restituirla ai giovani, che ne hanno bisogno».

Il futuro sta dunque nella ricerca della bellezza che, come sosteneva Todorov, sarà ciò che salverà il mondo?

«Più che salvarci sarà un elemento che porterà avanti la vita. Perché, a prescindere da noi lei è sempre lì e continua a lavorare. Sta a noi scoprirla nelle cose che ci circondano, dalle grandi alle più piccole, e trarne degli elementi di felicità».

Lei sostiene però che per riuscire a coglierla è necessario «un nuovo paradigma di socialità»: un’analisi più da filosofo che da musicista...

«Più che un filosofo sono un realista. Che ritiene che è necessario rimodellare il rapporto tra noi, le cose (le macchine e la tecnologia in particolare)e il pianeta. Dobbiamo fare in modo che la nostra società prenda quello che serve dalla tecnologia ma si fondi su un paradigma di socialità non basato sulla tecnologia ma sul senso dell’uomo e nel suo rapporto quotidiano con la natura. E per far ciò che accada è necessario, appunto, un nuovo paradigma di socialità che utilizzi la tecnologia ma mettendola sempre in una posizione subordinata all’uomo. Per fare passare questo concetto, però ci vuole tempo. Ed è per quello che dobbiamo lavorare in modo da lasciare ai giovani un pianeta in cui sia bello e felice vivere».

La «missione» in cui si è lanciato con questo progetto l’allontana parecchio da quel ruolo di rockstar che ha interpretato per anni. Non le manca un po’ quella dimensione?

«A dire il vero non mi sono mai considerato una rockstar. Soprattutto alla luce della suddivisione delle persone che ho imparato a fare nel corso degli anni. La prima è tra quelli che si sentono perennemente in debito nei confronti della vita e quelli che si sentono perennemente in credito. La seconda (riferita agli artisti) è tra coloro che godono come dei ricci a stare su un palcoscenico e chi invece la scena la soffrono. Ebbene, io faccio parte sia di quelli che si sentono perennemente in credito con la vita sia di chi si sente perennemente in imbarazzo su un palcoscenico. Ecco perché non mi sento una rockstar e non mi manca assolutamente quella dimensione».

L'evento

Incontro con l’artista sabato a Maroggia, Tondo Music, ore 19.00

Composto da tredici tracce e disponibile solo in versione «fisica» (vinile e CD) Il pianeta della musica e il viaggio di Iòtu è il quarto album solistico di Franco Mussida (in precedenza pubblicò Racconti della tenda rossa, 1991; Accordo, 1995 e Sinfonia Popolare per 1000 Chitarre, 1997), il primo dalla sua uscita ufficiale dalla PFM. Il disco verrà presentato sabato 26 novembre, a partire dalle 19.00 da Tondo Music a Maroggia «attraverso momenti di dialogo su aspetti profondi della comunicazione musicale ed esperienze d’ascolto che prevedono il coinvolgimento diretto e attivo del pubblico».