Videogames e società

Dal seno esagerato di Lara Croft al politically correct a tutti i costi

L’industria dei videogiochi è sempre più attenta all’inclusione e propone tematiche al passo coi tempi, ma c'è chi non apprezza: ne parliamo con Marco Minoli, marketing director di Slitherine Software
Michele Montanari
23.09.2022 12:45

Il seno spropositato di Lara Croft (Tomb Raider). Civili inermi massacrati senza motivo (Postal). Prostitute uccise dopo aver consumato un rapporto sessuale in auto (Grand Theft Auto). Il mondo dei videogiochi è sempre stato caratterizzato da una libertà espressiva senza eguali, anche nel trattare i temi più controversi. Ma come per il cinema, qualcosa sta cambiando, non solo per quanto riguarda violenza, sessualità e scorrettezze varie. Pure nell'industria videoludica si stanno facendo largo eroi ed eroine moderni, figli dei nostri tempi, nonché tematiche inclusive. Ovviamente non mancano le polemiche, visto che il pubblico di riferimento dei videogiochi è in maggioranza maschile. Abbiamo affrontato l'argomento con Marco Minoli, marketing director di Slitherine Software, casa di sviluppo britannica specializzata in giochi strategici.

L'industria cinematografica è sempre più attenta al tema dell'inclusione e questa tendenza si sta facendo largo anche nel mondo dei videogiochi. Come?

«C’è stato un vero e proprio cambiamento nel modo di pensare l’inclusione di personaggi diversi all’interno di videogiochi. Quando negli anni 90 arrivò Lara Croft il pubblico dei videogames era quasi esclusivamente maschile, quindi i personaggi femminili non avevano nessuno scopo di inclusività: non si creava una eroina per parlare ad un pubblico di donne. Lara Croft era un personaggio che si rivolgeva a utenti maschi, quindi aveva determinate connotazioni estetiche: ci sono state grandi polemiche sulle dimensioni del seno della protagonista di Tomb Raider, creata appositamente per piacere agli uomini. Oggi il paradigma è completamente cambiato, si creano personaggi diversi per raggiungere un altro tipo pubblico, che ha gusti e interessi differenti. Tant’è che, al di là delle avventure in cui il personaggio è fisso, uno dei grandi trend del mercato degli ultimi anni è la possibilità di creare il proprio avatar. Vengono dati tutti gli strumenti per personalizzare un personaggio esattamente come lo si vuole. Si crea un modello in cui ci si possa identificare, partendo dal colore dei capelli fino alla sessualità, se pensiamo a giochi come Cyberpunk 2077».

Però l’editor di avatar non è presente in tutti i videogames. Non si rischia di allontanare il pubblico «storico» in nome dell’inclusività? Se vengono proposti personaggi nei quali è più difficile identificarsi possono scoppiare polemiche come per The Last of Us 2: nonostante fosse un prodotto elogiato dalla critica, ha ricevuto una tempesta di recensioni negative dagli utenti, in quanto il protagonista maschile è stato sostituito da giovani donne omosessuali.

«I videogiochi in cui è presente un personaggio definito offrono un’esperienza completamente diversa da quelli che permettono di creare un avatar. The Last of Us 2, come altri prodotti legati al mondo Sony, penso ad esempio a Horizon Zero Dawn e God of War, hanno protagonisti perfettamente integrati in una storia, che hanno una loro personalità ben definita e un loro modo di interagire con altri personaggi. In questo caso, il prodotto è una sorta di film interattivo. Il protagonista è quello: se ti piace, ci giochi, se non ti piace, lasci perdere. La polemica su The Last of Us è fine a se stessa, un po’ come quella recente sulla sirenetta Disney. Il giocatore non viene abbandonato, c’è piuttosto la tendenza ad abbracciare la contemporaneità, con tutte le sue sfaccettature, che ad alcuni piacciano e ad altri no. Il tentativo di politicizzare la discussione lascia il tempo che trova: l’opera di Naughty Dog è stata tra le più vendute degli ultimi anni in casa Sony. È vero, c’è chi non apprezza, ma il gioco è andato benissimo ed è piaciuto. I giocatori che polemizzano non mancano mai, ma sono una minoranza: a volte scoppiano polemiche per questioni marginali e davvero imprevedibili».

Ci sono i casi in cui l’inclusività è una responsabilità etica di chi crea contenuti. Poi ci sono casi in cui questa tematica viene portata all’estremo, con evidenti forzature, tanto da diventare qualcosa di simile a un meme.

Dunque la presenza di un protagonista che parla alle minoranze piuttosto che al grande pubblico non penalizza le vendite?

«Credo sia impossibile dimostrare cosa sarebbe successo proponendo un determinato personaggio piuttosto che un altro. Se un gioco è bello e funziona, non credo che la presenza di un un personaggio maschile, piuttosto che femminile o con altre caratteristiche, cambi qualcosa in termini di copie vendute. Un esempio è il già citato Horizon Zero Dawn: ha un personaggio femminile meraviglioso e nonostante le polemiche, il gioco è diventato un pilastro dell’industria. E non solo, la questione gender legata a questo titolo ha generato una discussione positiva sull’argomento».

Videogiochi e cinema sono allineati in questo senso: cercano di dare a tutti eroi in cui identificarsi…

«Questo è un discorso che ha molte facce in realtà. Ci sono casi in cui l’inclusività è una responsabilità etica di chi crea contenuti, cioè quando l’industria intende davvero abbracciare il maggior numero di personaggi. Poi ci sono casi in cui questa tematica viene portata all’estremo, con evidenti forzature, tanto da diventare qualcosa di simile a un meme. Penso ad una scena del film Jurassic World Dominion. A un certo punto uno dei personaggi femminili, all’interno di un ascensore, in modo totalmente decontestualizzato dalla storia, fa capire di essere omosessuale. La cosa finisce lì, è fine a sé stessa e non serve a nulla nell’economia del racconto. Semplicemente viene annunciato che c’è un personaggio gay. Anche l'industria videoludica fa i conti con questo, ad esempio quando vengono utilizzate le licenze di film: spesso ci viene chiesto di inserire determinati personaggi, con tutta una serie di caratteristiche. È un ragionamento puramente di marketing piuttosto che di contenuti. Non si cerca più di raccontare la storia di un personaggio particolare, ma semplicemente "deve esserci" per evitare accuse di razzismo o sessismo. Ecco, questa è un’estremizzazione, una tendenza che mi lascia veramente freddo. Non è più una responsabilità sociale, ma uno stucchevole esercizio di marketing».

Quindi capita di dover essere inclusivi a tutti i costi?

«È così. Viviamo in un mondo di estrema sensibilità e chi racconta le storie a volte è quasi costretto ad affrontare la diversità, anche decontestualizzata o buttata a caso all’interno di un’opera. Questo è un peccato, perché in realtà poter raccontare la diversità è una grande opportunità. Si possono creare storie che parlano di diversità fisiche e di genere, facendo capire agli utenti tutte le varie sfaccettature sociali e di interazione che ne conseguono: sono proprio queste differenze a rendere bello un racconto. Non è il fatto di esserci a tutti i costi a rendere significativa la diversità. In questo senso, credo che i videogiochi siano indietro rispetto al cinema, perché il mondo dei videogames è ancora prevalentemente gestito da uomini e indirizzato a uomini. Tutte le aziende più grandi del settore sono gestite da maschi. Noi di Slitherine Software facciamo prevalentemente giochi strategici e il nostro pubblico di riferimento, lo dicono le analisi di mercato, è prevalentemente composto da maschi bianchi adulti. Rispetto ai fruitori di cinema e televisione, che sono veramente tutti, noi abbiamo un problema di diversità sia tra gli addetti ai lavori sia tra il pubblico».

Le donne sono aumentate, sì, ma soprattutto su mobile, dove però si raccontano meno storie e i giochi hanno una modalità di fruizione differente.

Però le donne che utilizzano i videogiochi sono aumentate...

«Nonostante le tante analisi di mercato indichino che le donne stanno aumentando, bisogna sottolineare come questo sia vero solo in parte: il pubblico dei videogiochi, specialmente quelli su console, è ancora fortemente maschile. Parliamo di circa il 70/80%. Le donne sono aumentate, sì, ma soprattutto su mobile, dove però si raccontano meno storie e i giochi hanno una modalità di fruizione differente. L'utenza si sta allargando, ma le storie che vengono raccontate sono principalmente rivolte ancora ai maschi. Questo perché nella maggior parte dei videogiochi si spara e si compiono attività che, in termini percentuali, piacciono di più agli uomini. Ovviamente ci sono ragazze che giocano a Call of duty, però sono una netta minoranza. Non è discriminazione, è semplicemente quanto emerge dalle ricerche di mercato. Il tipo di storia che puoi raccontare in un videogame è molto più limitato rispetto al cinema».

Un’opera come Death Stranding ha fatto discutere proprio perché le sparatorie sono finite in secondo piano.

«Parliamo di un prodotto molto di nicchia che ha comunque venduto bene. La cosa è sorprendente, perché è come se fosse un film d’essay. Probabilmente personaggi noti come Hideo Kojima possono far avvicinare grandi fette di pubblico a generi diversi dai soliti sparatutto».

Al momento la responsabilità è lasciata nelle sole mani di chi sviluppa i videogiochi. I vari educatori, gli psicologici, le scuole, ecc, sono molto indietro da questo punto di vista.

Un altro tema che spaventa i videogiocatori di vecchia data è il politically correct. L’industria videoludica è sempre stata libera di trattare tematiche decisamente forti. Penso ai vari Postal, Mortal Kombat o Grand Theft Auto. Proprio GTA, nel prossimo capitolo, potrebbe smorzare i suoi toni scorretti, mentre Saints Row lo ha già fatto, facendo imbestialire gli utenti. Cosa ne pensa?  

«Io ho paura che il politicamente corretto possa portare ad un appiattimento, però, allo stesso tempo, devo ammettere che i vari GTA li ho sempre trovati prodotti molto borderline. Mi spiego, questi giochi vendono decine di milioni di copie e chi li produce ha una responsabilità sociale immensa. Puoi mettere tutti divieti per i minori o gli avvertimenti su tematiche mature, ma i GTA vengono comunque giocati da tutti. Quando noi siamo partiti 20 anni fa, il pubblico era chiaramente adulto e capace di assorbire certe tematiche, oggi viviamo in un mondo diverso, in cui il videogioco ha una audience differente ed è giusto che i contenuti vengano gestiti in un altro modo. Dieci anni fa realizzavamo giochi di guida e dovevamo fare delle assicurazioni piuttosto costose per tutelarci da determinate situazioni. Un esempio? Il ragazzino che esce di casa dopo aver giocato, prende la macchina del padre e pensa di essere un pilota. Ecco, i contenuti devono essere regolati anche all’origine, in modo che siano digeribili da tutti. Se GTA dovesse abbassare l’asticella, condividerei la scelta degli sviluppatori: è un gioco sarcastico, ma il sarcasmo è troppo un sottotesto. È qualcosa che non tutti riescono a capire. Ci sono giochi molto più violenti, ma che raccontano l’eccesso di sparatorie ed esplosioni di sangue in maniera  decisamente più comprensibile».

Anche nel cinema ci sono opere estreme, eppure, al di là dei divieti ai minori, non si fanno troppe polemiche come per i videogames. Piuttosto che limitare il processo creativo, forse bisognerebbe regolare meglio l'accesso a determinati contenuti.

«Sono d’accordo, ma c’è un problema di fondo. Il cinema è un mezzo di intrattenimento passivo, mentre con un videogioco stai chiedendo a una persona di immedesimarsi al 100%, specialmente in questi tempi in cui i prodotti sono iperrealistici. Ecco, a questa persona, che magari ha dei problemi cognitivi o è molto giovane, poi si chiede lo sforzo di staccarsi dal videogame e di tornare a vivere nella sua quotidianità. Per fare un passaggio del genere in modo repentino ci vuole "la testa" e non tutti sono "attrezzati" per riuscirci. Sono tutte connotazioni psicologiche e pedagogiche relativamente nuove, legate ai concetti di realtà e realtà virtuale. Sembrano discorsi accademici, ma sono problemi concreti che il nostro settore deve affrontare. La questione è molto più grande del classico PEGI (il Pan European Game Information, ossia il metodo di classificazione usato in Europa per i videogiochi, ndr). Al momento la responsabilità è lasciata nelle sole mani di chi sviluppa i videogiochi. I vari educatori, gli psicologici, le scuole, ecc, sono molto indietro da questo punto di vista, per cui l’industria devo guardarsi allo specchio e chiedersi: "Aspetto che la società mi segua oppure faccio io qualcosa?". Tanti puntano il dito contro i produttori di videogames, ma al momento sono proprio loro gli unici attivi nel promuovere un utilizzo responsabile del medium».

 

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