Robbi Gubitosa: «Il basket, il cibo, mia figlia e quella doppia B nel nome»
Dopo dieci stagioni alla guida della SAM, Robbi Gubitosa sogna di portare il club massagnese nella prima finale playoff della sua storia. L’ultimo ostacolo è il Neuchâtel, ospite domani sera a Nosedo per gara-1 delle semifinali. Abbiamo incontrato il coach nel suo ristorante, il Fresco. L’obiettivo? Metterlo a nudo.
Rompiamo
il ghiaccio: Robbi è il tuo vero nome?
«Sì.
Dietro c’è una storia divertente. Il mio povero papà voleva chiamarmi Robi, con
una “B” sola, ma il prete di Viganello, padre Alberto, non era d’accordo.
Diceva che non andava bene, che non era un vero nome, ma un diminutivo di
Roberto. Papà decise allora di aggiungere una “B”: “Robbi non può mica essere
il diminutivo di Robberto”, disse. Il parroco lo supplicò di darmi almeno un
secondo nome “normale”. Papà lo lasciò scegliere direttamente a lui, che rese
omaggio a mia mamma Angela».
Ecco
a voi Robbi Angelo Gubitosa. Su Google, però, non ho trovato la tua età. Un
altro mistero?
«No,
ma quale mistero? Sono nato il 22 agosto del 1973».
Assicuratore,
ristoratore, proprietario di un centro fitness, coach della SAM. Che lavoro
fai?
«Il
lavoro vero è quello di allenatore, gli altri sono hobby».


È
il basket che ti dà da vivere?
«No,
gli hobby».
Scherzi
a parte, come coordini queste tue quattro attività?
«Come
consulente assicurativo ho rallentato. In ufficio mi vedono poco, i clienti li
ricevo qui al ristorante. Chi mi cerca, sa dove trovarmi. Il Fresco è il mio
quartier generale. Mi piace la cucina, sono un buongustaio. Quattro anni e
mezzo fa mi sono lanciato in questa avventura. Mi sono detto: “Qui almeno posso
decidere cosa mangiare e come mangiarlo”».
Sei
più esigente con il tuo chef o con i giocatori?
«Con
i giocatori. Perché sinceramente, al di là della passione per il buon cibo,
capisco più di pallacanestro che di cucina».


E
il centro fitness?
«L’avevo
in testa da anni e in ottobre siamo partiti. Mi occupo prevalentemente
dell’amministrazione e delle finanze, a tutto il resto pensa il fitness manager
Pierpaolo Manfré».
La
pandemia ha fatto più male al basket o alla ristorazione?
«Alla
ristorazione. La pallacanestro si è fermata, ha subito dei danni e ci è mancata
tanto. Ma è una cosa che da zero può ripartire subito a cento. Con i ristoranti
è diverso. Tanta gente ha ancora qualche dubbio e non è più tornata. Non siamo
ancora ripartiti al 100%. Secondo me ci vorranno anni».
Come
hai vissuto la pandemia a livello personale?
«Male.
Ho avuto paura, più che altro perché era appena nata mia figlia. Le prime
notizie, quando non si sapeva nulla del virus, mi hanno preoccupato molto.
All’inizio ho avuto una mezza crisi. Mi sono chiuso in casa, cercando di
proteggere mia moglie e la piccola Greta».
Sei
diventato papà a 45 anni. Come ti ha stravolto la vita?
«Mia
figlia è la mia passione più grande, penso a lei in ogni istante e anche adesso
che ne parlo mi viene da piangere. Mi dicevo: “Quando saprò di potermene
occupare anche tutto il giorno, faremo un figlio. E così è stato. Oggi sono un
uomo libero. Lavoro tanto, ma non seguo più da vicino determinate situazioni.
Prima, per dire, ero spesso all’estero. Ora sono sempre qui, tra ristorante e
campo da basket. Se voglio prendermi quattro ore da trascorrere con Greta, lo
faccio».


Prima
hai detto che il tuo vero lavoro è il basket. Perché?
«Perché
è quello che mi occupa più tempo e che mi mette più pressione. Ed è quello a
cui tengo maggiormente. Con il Massagno ho iniziato un percorso nel 2006, come
allenatore delle giovanili. Nel 2012 ho preso in mano la squadra in Serie A.
Ogni anno abbiamo aggiunto un tassello ed è giunta l’ora di cogliere dei
frutti. Come allenatore, mi sento molto responsabile e cerco di migliorarmi
costantemente. Studio, faccio scouting, guardo tante partite in TV: Svizzera,
Italia, Eurolega, NBA. Se ci aggiungiamo gli allenamenti, tutto questo mi
prende quattro o cinque ore al giorno».
Di
notte sogni Petar Aleksic, il coach della bestia nera Olympic?
«Mi
piace pensare che sia lui a sognare me. Quest’anno abbiamo una squadra un po’
più forte rispetto alle scorse stagioni, ma non siamo ancora a livello del
Friburgo in termini di professionismo. Ci manca l’allenamento del mattino con
dodici giocatori sempre a disposizione. Queste cose permettono ai burgundi di
essere un gradino sopra di noi».
E
allora perché dovrebbe essere Aleksic a sognare Gubitosa?
«Perché
in partita tutta questa differenza non si è mai vista. Quest’anno ci hanno
battuto quattro volte su cinque, sì, ma sono state gare tirate, giocate punto a
punto. La finale di SBL Cup ci ha fatto male, l’avevamo in mano, speriamo di poterci
riscattare. Ma prima dobbiamo pensare al Neuchâtel. E non sarà una
passeggiata».


Tu
nasci venditore nel settore delle auto. Perché è così difficile vendere il
prodotto basket in Svizzera? È colpa del prodotto? O di come lo si promuove?
«Il
prodotto ha i suoi difetti, ma andrebbe promosso meglio. Nelle nostre palestre
non offriamo nient’altro che la possibilità di guardare una partita di
pallacanestro. Altri sport e altre nazioni ci insegnano che il contorno è
importante, fa parte dello spettacolo. Bisogna offrire un’atmosfera diversa,
che sia attrattiva per chiunque. Anche per i bambini».
Tu
come sei entrato in contatto con il pianeta basket?
«Sono
cresciuto a Cassarate, un quartiere fertile per la palla a spicchi. È lì che ho
iniziato a giocare prima di passare al Lugano in quella che all’epoca era la
categoria Atomi. Ero allenato da Geni Campana, poi da Ghirlanda negli Under 20.
Una squadra forte, quella. Io ero un buon playmaker, ma soprattutto un gran
difensore. Potevo diventare un giocatore di livello, ma ho smesso presto».
Perché?
«Le
donne mi hanno allontanato dal campo. Ho abbandonato completamente la
pallacanestro, non l’ho neanche più guardata. Un giorno, nel 2006, Patrick
Manzan della SAM mi chiese di dare una mano al settore giovanile: “Una sera a
settimana, non di più”. Accettai, andai la prima sera e poi anche le sei
successive. La passione si era riaccesa».
Tanti
di quei giovani te li sei portati fino alla Serie A…
«È
l’orgoglio più grande. Ho fatto crescere dei ragazzi in cui pochi credevano. Me
ne sono rimasti due, Daniel Andjelkovic e Alexander Martino. Manca un po’ il
ricambio, dobbiamo ricominciare a formare».


Daniel
Andjelkovic ti considera quasi un padre.
«Era
un ragazzo alto e cicciottello in cui nessuno credeva. Dicevano che era svogliato.
A 14 anni lo portai nella mia Under 17, dicendogli che insieme, se avesse avuto
voglia di lavorare, avremmo potuto fare qualcosa di bello. È dimagrito, ci ha
dato dentro e a 16 anni è stato convocato in Nazionale. Senza i molti
infortuni, oggi sarebbe uno dei giocatori svizzeri più forti in circolazione».
Come
è cambiato il tuo ruolo alla SAM da quando c’è un manager come Ciccio Grigioni?
«Posso
concentrarmi di più sul campo. Ciccio si prende cura dei giocatori, li fa stare
bene. Io un ambiente così non l’ho mai visto. È bello che i ragazzi si cerchino
e si organizzino per uscire a cena tutti insieme. Ed è tanto merito suo».
Come
hai vissuto il passaggio da un presidente onnipresente come Bruschetti a uno
più di rappresentanza come Regazzi?
«Luigi
è un grande appassionato, mi stava sempre intorno, oppure parlavamo al
telefono. Prima avevo un Massimo Moratti, adesso ho un Agnelli. Fabio è sempre
presente alle partite, però con lui non discuto mai di giocatori, di schemi. In
questo Luigi mi manca un po’».
Hai
aperto il tuo ristorante a due passi dall’Elvetico, la casa dei Lugano Tigers.
Una provocazione?
«No,
era l’unico disponibile».