L'intervista

Robbi Gubitosa: «Il basket, il cibo, mia figlia e quella doppia B nel nome»

L’allenatore della SAM Massagno si mette a nudo in vista delle semifinali contro il Neuchâtel
Fernando Lavezzo
06.05.2022 20:30

Dopo dieci stagioni alla guida della SAM, Robbi Gubitosa sogna di portare il club massagnese nella prima finale playoff della sua storia. L’ultimo ostacolo è il Neuchâtel, ospite domani sera a Nosedo per gara-1 delle semifinali. Abbiamo incontrato il coach nel suo ristorante, il Fresco. L’obiettivo? Metterlo a nudo.

Rompiamo il ghiaccio: Robbi è il tuo vero nome?
«Sì. Dietro c’è una storia divertente. Il mio povero papà voleva chiamarmi Robi, con una “B” sola, ma il prete di Viganello, padre Alberto, non era d’accordo. Diceva che non andava bene, che non era un vero nome, ma un diminutivo di Roberto. Papà decise allora di aggiungere una “B”: “Robbi non può mica essere il diminutivo di Robberto”, disse. Il parroco lo supplicò di darmi almeno un secondo nome “normale”. Papà lo lasciò scegliere direttamente a lui, che rese omaggio a mia mamma Angela».

Ecco a voi Robbi Angelo Gubitosa. Su Google, però, non ho trovato la tua età. Un altro mistero?
«No, ma quale mistero? Sono nato il 22 agosto del 1973».

Assicuratore, ristoratore, proprietario di un centro fitness, coach della SAM. Che lavoro fai?
«Il lavoro vero è quello di allenatore, gli altri sono hobby».

Se è il basket a darmi da vivere? No, sono gli hobby...

È il basket che ti dà da vivere?
«No, gli hobby».

Scherzi a parte, come coordini queste tue quattro attività?
«Come consulente assicurativo ho rallentato. In ufficio mi vedono poco, i clienti li ricevo qui al ristorante. Chi mi cerca, sa dove trovarmi. Il Fresco è il mio quartier generale. Mi piace la cucina, sono un buongustaio. Quattro anni e mezzo fa mi sono lanciato in questa avventura. Mi sono detto: “Qui almeno posso decidere cosa mangiare e come mangiarlo”».

Sei più esigente con il tuo chef o con i giocatori?
«Con i giocatori. Perché sinceramente, al di là della passione per il buon cibo, capisco più di pallacanestro che di cucina».

La pallacanestro durante la pandemia si è fermata, ha subito dei danni e ci è mancata tanto

E il centro fitness?
«L’avevo in testa da anni e in ottobre siamo partiti. Mi occupo prevalentemente dell’amministrazione e delle finanze, a tutto il resto pensa il fitness manager Pierpaolo Manfré».

La pandemia ha fatto più male al basket o alla ristorazione?
«Alla ristorazione. La pallacanestro si è fermata, ha subito dei danni e ci è mancata tanto. Ma è una cosa che da zero può ripartire subito a cento. Con i ristoranti è diverso. Tanta gente ha ancora qualche dubbio e non è più tornata. Non siamo ancora ripartiti al 100%. Secondo me ci vorranno anni».

Come hai vissuto la pandemia a livello personale?
«Male. Ho avuto paura, più che altro perché era appena nata mia figlia. Le prime notizie, quando non si sapeva nulla del virus, mi hanno preoccupato molto. All’inizio ho avuto una mezza crisi. Mi sono chiuso in casa, cercando di proteggere mia moglie e la piccola Greta».

Sei diventato papà a 45 anni. Come ti ha stravolto la vita?
«Mia figlia è la mia passione più grande, penso a lei in ogni istante e anche adesso che ne parlo mi viene da piangere. Mi dicevo: “Quando saprò di potermene occupare anche tutto il giorno, faremo un figlio. E così è stato. Oggi sono un uomo libero. Lavoro tanto, ma non seguo più da vicino determinate situazioni. Prima, per dire, ero spesso all’estero. Ora sono sempre qui, tra ristorante e campo da basket. Se voglio prendermi quattro ore da trascorrere con Greta, lo faccio».

Con il Massagno ho iniziato un percorso nel 2006, come allenatore delle giovanili. Nel 2012 ho preso in mano la squadra in Serie A. Ogni anno abbiamo aggiunto un tassello ed è giunta l’ora di cogliere dei frutti

Prima hai detto che il tuo vero lavoro è il basket. Perché?
«Perché è quello che mi occupa più tempo e che mi mette più pressione. Ed è quello a cui tengo maggiormente. Con il Massagno ho iniziato un percorso nel 2006, come allenatore delle giovanili. Nel 2012 ho preso in mano la squadra in Serie A. Ogni anno abbiamo aggiunto un tassello ed è giunta l’ora di cogliere dei frutti. Come allenatore, mi sento molto responsabile e cerco di migliorarmi costantemente. Studio, faccio scouting, guardo tante partite in TV: Svizzera, Italia, Eurolega, NBA. Se ci aggiungiamo gli allenamenti, tutto questo mi prende quattro o cinque ore al giorno».

Di notte sogni Petar Aleksic, il coach della bestia nera Olympic?
«Mi piace pensare che sia lui a sognare me. Quest’anno abbiamo una squadra un po’ più forte rispetto alle scorse stagioni, ma non siamo ancora a livello del Friburgo in termini di professionismo. Ci manca l’allenamento del mattino con dodici giocatori sempre a disposizione. Queste cose permettono ai burgundi di essere un gradino sopra di noi».

E allora perché dovrebbe essere Aleksic a sognare Gubitosa?
«Perché in partita tutta questa differenza non si è mai vista. Quest’anno ci hanno battuto quattro volte su cinque, sì, ma sono state gare tirate, giocate punto a punto. La finale di SBL Cup ci ha fatto male, l’avevamo in mano, speriamo di poterci riscattare. Ma prima dobbiamo pensare al Neuchâtel. E non sarà una passeggiata».

Nelle nostre palestre non offriamo nient’altro che la possibilità di guardare una partita di pallacanestro. Altri sport e altre nazioni ci insegnano che il contorno è importante

Tu nasci venditore nel settore delle auto. Perché è così difficile vendere il prodotto basket in Svizzera? È colpa del prodotto? O di come lo si promuove?
«Il prodotto ha i suoi difetti, ma andrebbe promosso meglio. Nelle nostre palestre non offriamo nient’altro che la possibilità di guardare una partita di pallacanestro. Altri sport e altre nazioni ci insegnano che il contorno è importante, fa parte dello spettacolo. Bisogna offrire un’atmosfera diversa, che sia attrattiva per chiunque. Anche per i bambini».

Tu come sei entrato in contatto con il pianeta basket?
«Sono cresciuto a Cassarate, un quartiere fertile per la palla a spicchi. È lì che ho iniziato a giocare prima di passare al Lugano in quella che all’epoca era la categoria Atomi. Ero allenato da Geni Campana, poi da Ghirlanda negli Under 20. Una squadra forte, quella. Io ero un buon playmaker, ma soprattutto un gran difensore. Potevo diventare un giocatore di livello, ma ho smesso presto».

Perché?
«Le donne mi hanno allontanato dal campo. Ho abbandonato completamente la pallacanestro, non l’ho neanche più guardata. Un giorno, nel 2006, Patrick Manzan della SAM mi chiese di dare una mano al settore giovanile: “Una sera a settimana, non di più”. Accettai, andai la prima sera e poi anche le sei successive. La passione si era riaccesa».

Tanti di quei giovani te li sei portati fino alla Serie A…
«È l’orgoglio più grande. Ho fatto crescere dei ragazzi in cui pochi credevano. Me ne sono rimasti due, Daniel Andjelkovic e Alexander Martino. Manca un po’ il ricambio, dobbiamo ricominciare a formare».

Andjelkovic era un ragazzo alto e cicciottello in cui nessuno credeva. Dicevano che era svogliato. A 14 anni lo portai nella mia Under 17

Daniel Andjelkovic ti considera quasi un padre.
«Era un ragazzo alto e cicciottello in cui nessuno credeva. Dicevano che era svogliato. A 14 anni lo portai nella mia Under 17, dicendogli che insieme, se avesse avuto voglia di lavorare, avremmo potuto fare qualcosa di bello. È dimagrito, ci ha dato dentro e a 16 anni è stato convocato in Nazionale. Senza i molti infortuni, oggi sarebbe uno dei giocatori svizzeri più forti in circolazione».

Come è cambiato il tuo ruolo alla SAM da quando c’è un manager come Ciccio Grigioni?
«Posso concentrarmi di più sul campo. Ciccio si prende cura dei giocatori, li fa stare bene. Io un ambiente così non l’ho mai visto. È bello che i ragazzi si cerchino e si organizzino per uscire a cena tutti insieme. Ed è tanto merito suo».

Come hai vissuto il passaggio da un presidente onnipresente come Bruschetti a uno più di rappresentanza come Regazzi?
«Luigi è un grande appassionato, mi stava sempre intorno, oppure parlavamo al telefono. Prima avevo un Massimo Moratti, adesso ho un Agnelli. Fabio è sempre presente alle partite, però con lui non discuto mai di giocatori, di schemi. In questo Luigi mi manca un po’».

Hai aperto il tuo ristorante a due passi dall’Elvetico, la casa dei Lugano Tigers. Una provocazione?
«No, era l’unico disponibile».