Basket

Trent’anni fa la squadra dei sogni travolse Barcellona e i suoi Giochi

Genesi, aneddoti e trionfi del Dream Team americano di basket alle Olimpiadi del 1992, le prime aperte ai fenomeni della NBA
Fernando Lavezzo
28.07.2022 06:00

Nell’estate del 1992, Barcellona e le sue Olimpiadi vennero travolte dalla miglior squadra di basket di tutti i tempi, il Dream Team americano. Michael Jordan, Magic Johnson e Larry Bird erano i suoi tre pilastri, ma ogni protagonista era una stella di prima grandezza della NBA, ad eccezione dell’universitario Christian Laettner. «Erano talmente dominanti che non riesco neanche a ricordare chi arrivò secondo», disse Donnie Nelson, ex general manager dei Dallas Mavericks. Risposta: seconda arrivò la Croazia, che perse la finale di 32 punti. Nessuno, in 14 partite ufficiali giocate dal Dream Team (tra torneo di qualificazione e Olimpiadi), si era avvicinato così tanto agli alieni. A trent’anni di distanza, ripercorriamo la storia di un mito.

Quel nome da copertina

Jack McCallum è autore del libro definitivo (e omonimo) sul Dream Team, di cui seguì le gesta per Sport Illustrated sin dal principio. «Ebbi anche qualcosa a che fare con l’origine del nome», spiega nell’introduzione. Nel febbraio del 1991, infatti, il giornalista pubblicò un articolo in cui immaginava la selezione USA per i Giochi del 1992, elencando i giocatori del suo quintetto ideale: Jordan, Magic, Barkley, Malone, Ewing. I cinque, tra mille peripezie, vennero radunati durante l’All-Star Game del 1991 per scattare la foto di copertina di Sport Illustrated, nella quale reggevano i cinque cerchi olimpici. L’immagine era accompagnata da due parole: Dream Team.

Un ponte tra due mondi

Morto nel 2020, a 94 anni, nella sua casa di Belgrado, Boris Stankovic è stato uno degli uomini più influenti della pallacanestro mondiale. Tra il 1976 e il 2002 è stato il segretario generale della FIBA. Come ricorda McCallum, il Dream Team «fu una conseguenza della sua lungimiranza». Fu lui a costruire un ponte tra la federazione internazionale e la NBA. Fu lui a battersi più di chiunque altro per aprire le porte delle Olimpiadi ai professionisti. Al congresso FIBA dell’8 aprile 1989, con 56 voti a favore e 13 contrari (tra cui gli USA...), fu approvata una risoluzione che permetteva agli atleti della NBA di partecipare ai Giochi.

L’allenatore dei cattivi ragazzi

Campione NBA nel 1989 e nel 1990 alla guida di Detroit, Chuck Daly – scomparso nel 2009 – venne scelto per allenare il Dream Team. I suoi Pistons, i famigerati «Bad Boys», così chiamati per il loro gioco aggressivo, spesso oltre il limite, erano detestati. Lui no. Piaceva a tutti. E questo nonostante fosse l’inventore delle «Jordan Rules», un sistema di marcature e colpi proibiti concepito per arginare la superstar dei Bulls. Daly promise che a Barcellona non avrebbe chiamato time-out. Fu di parola.

Gli eletti e il grande escluso

Una volta scelto l’allenatore, toccava ai 12 giocatori. Inizialmente si pensava a 6 cestisti della NBA affiancati da 6 universitari. Poi si passò a 8 e 4. Infine, con tutto quel bendidio di campioni a disposizione, si puntò su un rapporto di 11 a 1...

Magic Johnson, che qualche mese dopo avrebbe annunciato la sua sieropositività, accettò subito l’invito, diventando una sorta di ambasciatore del Dream Team. Michael Jordan, fresco di primo titolo con i Bulls, impose una condizione: «Non voglio giocare se in squadra c’è anche Isiah Thomas». Quest’ultimo era il leader di quei Pistons che lo avevano tartassato negli anni precedenti. Jordan volle anche esser certo di poter giocare a golf durante il torneo olimpico. A Barcellona si sparò 18 buche al giorno, anche prima della finale. Larry Bird, ormai 34.enne e con la schiena a pezzi, si convinse dopo il rifiuto iniziale, forse sfinito dalla telefonate di Magic, regalandosi così un perfetto finale di carriera. Ci furono altre scelte facili, per non dire scontate: David Robinson e Patrick Ewing erano i centri migliori, Karl Malone una garanzia di punti e rimbalzi nonostante il carattere burbero, il tuttofare Scottie Pippen si era imposto nei Bulls di Jordan. Chuck Daly stravedeva per Chris Mullin, tiratore eccelso al quale nessuno voleva rinunciare. Sull’opportunità di chiamare Charles Barkley, non proprio un cittadino modello, ci fu qualche discussione, ma il valore del giocatore prevalse su tutto il resto. Con l’esclusione di Isiah Thomas praticamente certa, John Stockton si guadagnò i galloni di secondo playmaker dietro a Magic Johnson.

Il comitato di selezione aveva deciso di lasciare ancora vacanti gli ultimi due posti. I primi dieci «eletti» vennero quindi annunciati in uno speciale della NBC. Jordan fu chiamato per ultimo, alimentando un po’ la suspense. Ma i nomi erano già stati anticipati da Newsday...

Isiah Thomas non venne considerato neppure per gli ultimi due posti disponibili, che andarono a Clyde Drexler e al collegiale Christian Laettner.

L’ultima ruota del carro

Con la sua aria da «fighettino arrogante» e un atteggiamento da «bullo attaccabrighe» (così lo descrive Jack McCallum), Laettner vinse la concorrenza di Shaquille O’Neal per accaparrarsi il solo biglietto destinato agli universitari. Negli anni seguenti, O’Neal si sarebbe riscattato dominando la NBA, al contrario del rivale. Nel suo libro, McCallum descrive bene l’esperienza vissuta da Christian Laettner nel ruolo di ultima ruota del Dream Team: «Era come un ragazzino fresco di recita scolastica al quale si chiedesse di esibirsi in una compagnia di professionisti con una dozzina di Laurence Olivier mentre sua madre (l’imbarazzante e onnipresente Bonnie, ndr.) urla sciocchezze da dietro le quinte».

Tappe d’avvicinamento

Il 22 giugno del 1992 il Dream Team svolse la sua prima sessione d’allenamento a San Diego. Magic Johnson, sette mesi dopo aver annunciato di essere risultato positivo all’HIV ed essersi quindi ritirato, era tornato a tutti gli effetti e venne nominato co-capitano insieme a Bird. Il ruolo era stato proposto anche a Jordan, che però fece un passo indietro.

Il 24 giugno a La Jolla, vicino a San Diego, la squadra dei sogni giocò la sua prima partitella d’allenamento contro una selezione di universitari, perdendola 80 a 88. Non ricapitò una seconda volta. Nelle qualificazioni ai Giochi, il Torneo delle Americhe di Portland, il Dream Team debuttò ufficialmente contro Cuba. I giocatori avversari chiesero di poter scattare delle foto ancora prima della palla a due. Gli USA vinsero 136-57. L’unica preoccupazione di coach Daly fu la scelta del quintetto base. Il primo, simbolico quintetto nella storia del Dream Team. Jordan, Magic e Bird dovevano esserci. Un lieve infortunio di Ewing spalancò le porte a Robinson. Barkley ebbe la meglio su Malone. Gli USA chiusero con sei vittorie in sei partite e una media di 51,5 punti di margine.

Il Dream Team concluse la preparazione pre-olimpica a Monte Carlo. Tra allenamenti, partite di golf, serate al Casinò e una cena ufficiale con il principe Ranieri, andò in scena – lontana da occhi indiscreti – «la partita più bella che io abbia mai giocato», per dirla con Jordan. Una sfida interna tra i Bianchi di Michael Jordan (con Pippen, Bird, Malone e Ewing) e i Blu di Magic Johnson (con Mullin, Laettner, Barkley e Robinson). Assenti per infortunio, Drexler e Stockton. Il risultato? Bianchi 40, Blu 36. Esiste anche una registrazione. «Magic rimase infuriato per due giorni», ha raccontato Jordan.

La prigione dorata

A Barcellona il Dream Team alloggiava nel nuovissimo Hotel Ambassador, terminato pochi giorni prima dei Giochi e preso d’assalto da tifosi e curiosi. Una sorta di «prigione dorata» dove i giocatori passavano la maggior parte del loro tempo tra partite a carte, sfide a ping pong (almeno qui Laettner era il più bravo) e sigari fumanti. Come scrive McCallum, a Barcellona John Stockton «era l’unico che riusciva ad andarsene in giro normalmente, essendo, come dice lui stesso, ‘‘un bianco qualsiasi alto un metro e ottanta’’». Il playmaker degli Utah Jazz girò anche un divertente filmato nelle vie della città catalana per documentare il suo livello di anonimato. A una donna con la t-shirt del Dream Team chiese se avesse incontrato qualche star della squadra americana. «Abbiamo visto Charles Barkley», rispose lei, ignara di trovarsi di fronte al re degli assist.

Alla primissima conferenza stampa del Dream Team a Barcellona c’erano 1.200 giornalisti. Come ricorda McCallum, un reporter giapponese domandò come mai alcuni tiri contassero 2 punti e altri 3. «Così è il gioco, amico mio», rispose Karl Malone. A Charles Barkley chiesero dell’esordio contro l’Angola: «Non so un accidenti dell’Angola, però l’Angola è nei guai», affermò il più matto della squadra, in campo e fuori. Barkley non aveva nessuna intenzione di starsene chiuso in hotel e le sue scorribande lungo la Rambla sono entrate nel mito, tanto quanto i suoi canestri spettacolari.

Partite senza storia

Purtroppo Barkley si fece notare anche nella partita d’esordio contro gli angolani, il 26 luglio di 30 anni fa, rifilando una gomitata a un avversario, Herlander Coimbra. Seguirono polemiche infinite. La partita finì 116 a 48 per gli americani.

Nella seconda gara, il Dream Team sconfisse la Croazia per 103 a 70. Toni Kukoc non toccò palla, diventando il bersaglio di Jordan e Pippen, suoi futuri compagni di squadra a Chicago. Ai due, spiega McCallum, «non andava giù che Kukoc fosse (o sembrasse) il cocco del general manager dei Bulls Jerry Krause, il quale non aveva voluto estendere il contratto di Scottie per risparmiare un po’ di soldi da destinare a Toni».

Nelle uscite seguenti gli USA annientarono la Germania (111-68), il Brasile (127-83), la Spagna (122-81), il Porto Rico nei quarti di finale (115-77), la Lituania in semifinale (127-76) e di nuovo la Croazia nella partita per la medaglia d’oro (117-85, stavolta contro un buon Kukoc).

Un torneo senza storia. Sul podio, Michael Jordan (uomo immagine della Nike) coprì il logo della Reebok sulla divisa avvolgendosi nella bandiera americana, imitato da Barkley e Magic. È l’ultimo aneddoto di un evento leggendario.