Giovanni Trapattoni, un italiano vero

BELLINZONA - «Quanta gente». Abituato ai grandi palcoscenici, Giovanni Trapattoni tradisce un pizzico di emozione nell'affrontare la platea dell'Auditorium BancaStato, a Bellinzona. È la sua serata, voluta dagli organizzatori quale corollario del Torneo Pasquale, giunto all'edizione numero 75. Classe '39, prima calciatore e poi allenatore, il «Trap» rompe il ghiaccio a modo suo, con un battuta: «Siamo in Svizzera e dovrei parlare tedesco. Ma è meglio che mi limiti a guten abend, altrimenti mi salta fuori un altro 'Strunz' e sarebbe inopportuno».
Punzecchiato dalle domande di Paolo Ascierto, collega de «La Regione» e moderatore della conferenza, Trapattoni ripercorre la sua prosperosa carriera. «Ma in pensione non voglio andarci, per ora» ribadisce con orgoglio. L'orgoglio di un italiano vero, parafrasando la canzone di Toto Cutugno, scelta quale colonna sonora dell'evento.
Il torneo e gli esordi
Tuffo all'indietro: è il 1958, il Milan vince il Torneo di Bellinzona mentre Trapattoni si affaccia alla prima squadra rossonera. «La buona notizia è che sono ancora qui a parlarne. Questa competizione è importante e riconosciuta, come il Torneo di Viareggio». Il «Giuan» degli esordi è un ragazzo umile e dedicato: «Se non avessi avuto fortuna nel calcio avrei fatto il tipografo. I miei erano tempi diversi. La mattina facevo quattro ore in tipografia, al pomeriggio mi allenavo. Andai avanti così finché un dirigente del Milan disse alla mia famiglia: da oggi uno stipendio glielo diamo noi. Mi ritengo una persona fortunata. Lo pensava anche l'avvocato Agnelli: lui, come un generale americano, non sceglieva i più bravi ma i più fortunati».
Gli esempi da seguire
Nei suoi primi anni di carriera, il Trapattoni calciatore vive all'ombra dei giganti: «Diventai grande grazie a Schiaffino e Liedholm, fra gli altri. Mi educarono, dei campioni eccezionali. E quando questi giocatori si fecero da parte, il Milan puntò sui giovani. In poco tempo vincemmo uno scudetto e poi una Coppa dei Campioni. I rossoneri furono una scuola per me». Parecchio tempo dopo, è il «Trap» allenatore a fare scuola: «Un aneddoto legato all'Inter e a Rummenigge. Non sapeva usare il sinistro, era una stampella. In allenamento lo marcavo, costringendolo ad andare sul destro per fermarlo. Dopo l'ennesimo stop gli scattò qualcosa in testa. Così, su mio consiglio cominciò ad allenare il piede debole. Il risultato? Finalmente segnò anche di sinistro».
L'umiltà e gli obiettivi
«Io umile? Più che altro, mi è sempre piaciuto studiare. Mancandomi presto papà, forse apprezzo più di altri i sacrifici che bisogna fare per centrare un obiettivo, nel calcio come nella vita. Ancora oggi, prossimo alla pensione, mi aggiorno, curo ogni dettaglio. Questo perché, ai miei occhi, se un presidente o una Federazione ti assumono, allora è bene ripagare questa fiducia attraverso la serietà».
Acqua santa e superstizione
C'è un numero ricorrente nella vita di Giovanni Trapattoni: il 17. «È il mio giorno di nascita e forse per questo non sono superstizioso» racconta. «Quando la Juventus mi scelse, i bianconeri erano fermi a 16 scudetti. Indovinate un po': vinsi il titolo numero 17 al mio primo anno sulla panchina juventina. Poi mi chiamò l'Inter, da tempo ferma a 12 scudetti. Con i nerazzurri conquistai il campionato numero 13. Al che dissi: ho fatto 17 e poi 13, sono in una botte di ferro». Diverso il rapporto con la fede: «Sono un cattolico convinto, tant'è che in panchina mi porto l'acqua santa. Ma l'acqua santa mica può battere l'avversario per te, semmai quello è compito dei giocatori. Per me è sempre stata una forma di protezione».
Il calciatore e l'allenatore
«Al Milan, come giocatore, fermai Eusebio. Non ero un fenomeno, ma quando incontravo i mostri sacri sapevo come bloccarli. Avete presente una cometa? Ecco, io stavo nella coda». Significa che la vera stella è il Trapattoni formato panchina? «Io penso che la mia carriera sul campo abbia contribuito a quella di tecnico. Paragoni fra il calcio di ieri e quello di oggi non ne faccio. Ieri è ieri, per dirla con Agnelli. Certo, se guardo una partita adesso vedo pressing e ritmo. Quando giocavo io, fra il portatore di palla e l'avversario c'erano almeno cinque metri». Gli esordi come allenatore, manco a dirlo, avvengono al Milan: «Io volevo ancora giocare, tant'è che venni ceduto al Varese. Fu Rocco a richiamarmi a Milano. Lui avrebbe fatto da supervisore, io l'assistente e Cesare Maldini il primo allenatore. Gli inizi mi diedero la spinta per andare avanti. Pensai che, se non avessi avuto fortuna in panchina, avrei sempre fatto a tempo a ritornare in tipografia. Decisi anche di lasciare il Milan e provare a camminare sulle mie gambe. Stavo per firmare con l'Atalanta, ma mi trovai alla Juventus». E un clamoroso ritorno al Milan, visto che Inzaghi balla male? «Devo tanto ai rossoneri, ma non penso di fare più al caso loro. Poi c'è Barbara Berlusconi che parla di calcio adesso (ride, ndr). Se devo proprio fare un nome, dico Montella: è intelligente, bravo, capace».
La nazionale azzurra
Trapattoni, con l'Italia, non ottiene quanto sperato: eliminato agli ottavi ai Mondiali del 2002, fuori alla fase a gironi due anni dopo agli Europei in Portogallo. «Al di là di Moreno e del biscotto fra Svezia e Danimarca, in nazionale mi trovai fra due fuochi: da una parte la vecchia guardia, forse un po' logora; dall'altra la nuova generazione. Purtroppo il calcio non è matematica e successe quel che successe». Dagli azzurri al calcio italiano in generale, sprofondato in una crisi tremenda: «Il Parma è l'ultimo, triste caso. Come uscirne? Fiducia ai giovani». Ma cosa pensa il «Trap» della sfortunata frase di Arrigo Sacchi, secondo cui ci sarebbero troppi neri nelle squadre giovanili? «Una frase di frustrazione. Se vogliamo un'educazione europea, è bene crescere e favorire l'integrazione».
Campioni, donne, ricordi
Giovanni è un fiume in piena. Ha voglia di parlare, raccontare, confrontarsi. Sorride, gesticola, pare quasi guidare la platea. I presenti gli chiedono di Rivera («Eccezionale, vedeva il gioco prima di tutti») e poi di sua moglie Paola: «Al di là del fuoco iniziale, lei è stata la mia bilancia e il mio equilibrio, sacrificandosi e seguendomi ovunque. È la mia fortuna». Quindi spazio ad un maestro come Nereo Rocco («Un secondo padre») e al rapporto con Thomas Strunz, bersaglio della famosa conferenza stampa ai tempi del Bayern: «Chiarimmo l'episodio e ci abbracciammo, siamo rimasti buoni amici. Quello sfogo fu una reazione d'orgoglio, mi feci portavoce dei tanti italiani di Germania, che all'epoca soffrivano ancora molto. La stampa mi attaccò, ma solamente perché un italiano osò prendersela con un tedesco». E i giocatori a cui è maggiormente legato? «Ricordo volentieri Platini, perché inizialmente non mi interessava. Mi spiego: un amico mi disse di andare a vedere questo francese fortissimo. Io gli risposi che i francesi non mi avevano mai convinto. Ma Michel era Michel e dopo averlo seguito dal vivo chiesi all'Avvocato Agnelli di prenderlo. Il giocatore che mi è rimasto nel cuore però è Gaetano Scirea, anche perché provo un senso di colpa enorme. Dovevamo affrontare una squadra polacca in Coppa, lui era mio assistente e faceva da scout. Aveva già visionato l'avversario più volte, ma Boniperti mi chiese di mandarlo ancora. Rimase vittima di un incidente stradale». Infine, una domanda particolare: chi fra Mourinho, Ancelotti e Capello assomiglia di più a Trapattoni? «Mou è un grattaculo mica da ridere. Ma ha saputo scegliere chi gli ha comprato tutto. L'umiltà di Carlo e Fabio è più vicina a me. Loro hanno vinto in Spagna, per un italiano non è scontato. La Spagna è il calcio».