Lele Adani: «L'immagine del pranzo al sacco? Appartiene a ciascuno di noi»

È un personaggio divisivo, per i modi e i toni utilizzati nell’esposizione di quanto avviene sul rettangolo verde. Sabato, alle 11, sarà a Lugano, gradito ospite del Festival Endorfine. Parliamo di Daniele Adani, ex calciatore, oggi commentatore sportivo, opinionista RAI e protagonista sul web del programma «Viva el Futbol» insieme ad AntonioCassano e Nicola Ventola. Abbiamo intervistato «Lele» in vista dell’appuntamento al Palacongressi.
«Il suo racconto del calcio ha portato una rivoluzione nella narrazione sportiva». Il Festival Endorfine, nel suo programma, ha voluto introdurla così. Negli scorsi giorni, dopo la telecronaca di Israele-Italia, si è dibattuto molto sullo stile del suo linguaggio calcistico. A torto o a ragione?
«Quando sei seguito da 8 milioni di persone in diretta, e a queste aggiungi tutte le altre che vivono la nazionale italiana di rimando sul web, il tuo racconto sulla RAI gode inevitabilmente di un’eco molto importante. Ma a determinarne la dimensione non è tanto la telecronaca, quanto la trama della partita, che guida in un senso o nell’altro chi si trova in cabina di commento. In questo caso il sottoscritto, con le sue caratteristiche. Ebbene, per formazione, competenze e passione, il mio pensiero e il mio linguaggio – ciò che sentivo dentro – sono stati trasportati dall’evento. E si sono formati di conseguenza. A mio avviso ne è uscita una cosa carina. E le cose carine dovrebbero sfociare solo in sorrisi e in sobbalzi sul divano, per tutte quelle emozioni che nascono sul campo, ci attraversano e – appunto – si traducono in racconto. Le mie parole, detto altrimenti, erano rivolte alla testa e al cuore delle persone. E fra queste, chi si è posto verso la telecronaca con apertura mentale e sentimentale è stato coinvolto. Come? Lo hanno deciso i loro valori e il loro modo di essere».
Riassumiamo grossolanamente gli schieramenti: da un lato il disappunto, che ha i capelli grigi e un po’ di nostalgia, dall’altro l’affetto, che è giovane e meno schematico. Condivide?
«Rispondo con un esempio. Il giorno dopo Israele-Italia, mentre mi trovavo nel garage del condominio dove vivo a Milano, un signore sull’ottantina – mai incrociato prima – mi ha fermato mentre stavo uscendo con lo scooter. “Ma che bella cosa che ha detto, come le è venuta?” le sue parole d’apprezzamento. Insomma, non ragionerei esattamente secondo gli schieramenti presentati nella domanda. Il concetto del “pranzo al sacco”, con l’emotività che ne deriva, è di tutti. Pensiamoci. Il pranzo al sacco è qualcosa che nasce da lontano e in qualche modo riguarda ciascuno di noi. Non c’entra chi ha i capelli grigi o 18 anni. No, a seconda del proprio vissuto e del personale grado di emotività, è il singolo a decidere come collocarsi di fronte all’immagine in questione».
A posteriori, in ogni caso, ha voluto reinterpretare in modo ironico – sia in foto, sia in video – il concetto di «pranzo al sacco». Quale messaggio ha voluto trasmettere?
«In quel post, effettivamente, c’era dell’ironia. O meglio, la messa in relazione del disordine assurdo che ha caratterizzato gli ultimi dieci minuti di Israele-Italia e un passatempo - il pranzo al sacco, appunto - che ha fatto parte e continuerà a fare parte delle nostre vite. Il tutto con leggerezza, mio intento sin dalla telecronaca, e senza rispondere direttamente a una o l’altra voce critica».


E a proposito di momenti di leggerezza. Al termine di Juventus-Inter si è parlato e scritto quasi di più delle risatine fra i fratelli Thuram che della prestazione delle due squadre in campo. Lele Adani che peso dà all’episodio?
«Un peso irrisorio. Parliamo di un momento esclusivo, fra fratelli che hanno vissuto il derby d’Italia da avversari e protagonisti, considerate le prestazioni e la rete di entrambi. Non metterei dunque in dubbio la professionalità di Marcus e Khéphren. Poi, certo, avrebbero anche potuto evitarlo. Ed è lecito aver sollevato la questione e dissentire. Purché, però, il tema non venga ingigantito e strumentalizzato».
Intanto i nerazzurri di Chivu sono già a -6 da Juve e Napoli. Una sentenza in anticipo sul destino?
«Calma. Diamo tempo al tempo. Che l’Inter abbia dei problemi nel rigenerarsi da una guida e un progetto quadriennale tramontati, ad ogni modo, è evidente. La squadra è chiamata ad assorbire e metabolizzare il nuovo tecnico. Deve credere, detto altrimenti, in Cristian Chivu. Poi bisogna riconoscere come non via stata una particolare sinergia tra gli acquisti estivi e le idee del nuovo allenatore. Tre dei cinque innesti, al momento dell’arrivo di Chivu, erano già stati concretizzati. Dopodiché, Diouf è stato ingaggiato quando si cercava un rinforzo per un altro ruolo, mentre Akanji ha firmato all’ultimo giorno del mercato. Se il lavoro è un valore, dunque, bisogna concedere un po’ di margini a Chivu, da parte sua chiamato a dimostrare di aver attecchito in spogliatoio. E di essere in grado di fornire delle risposte, ancora prima che in termini di idee, sul piano mentale e dell’attenzione in campo».
Il portiere svizzero dell’Inter Yann Sommer, intanto, sembrava dovesse pagare a caro prezzo le esitazioni di Torino, venendo rimpiazzato da Martinez in Champions. Non accadrà. Giusto così?
«Negli ultimi anni, in materia di portieri, l’Inter si è spesso mossa in modo corretto. Penso alla sostituzione progressiva di Handanovic con Onana, poi finalista in Champions e in seguito plusvalenza clamorosa. O all’acquisto dello stesso Sommer, artefice dello scudetto nel 2024, nonché fattore determinante - con quella parata senza senso su Yamal in semifinale di Champions - dell’ultimo atto dello scorso anno. Detto ciò, inserire Martinez con maggiore continuità, ragionando in prospettiva, è lecito. A patto di non scadere subito nei giudizi, dando a Sommer del bollito».
E da ex difensore, che cosa pensa di Manuel Akanji?
«Un grandissimo calciatore. Lo ammiravo prima ancora che passasse al City, e la stessa Inter lo aveva sondato tre anni fa prima di puntare su Acerbi. Sul piano tattico, però, preferisco l’Akanji che guida la difesa, mentre l’assetto a tre in nerazzurro gli impone e imporrà - a differenza di Pavard, che era padrone del ruolo - continui accorgimenti. Ma ribadisco: per quanto tardivo, rimane un acquisto di valore».
Tornando alla nazionale azzurra, la qualificazione ai Mondiali 2026 si sta già trasformando in un mezzo psicodramma, con tanto di proiezioni premature su playoff e possibili avversari. Ma così non si rischia di far cedere definitivamente una selezione già tremendamente fragile sul piano psicologico?
«È una buona lettura. Chi studia e rispetta il calcio, tuttavia, sapeva che la Norvegia capolista avrebbe costituito uno scenario plausibile. Basta soppesarne la potenza in attacco e le buone qualità dalla cintola in su, riconoscendo al contempo il rinnovamento in corso in casa azzurra, dopo il fallimentare Europeo in Germania e il rocambolesco cambio di guida tecnica. Preso atto di questo, e senza vendere altro alla gente, la cosa più opportuna da fare ora è prepararsi con le quattro partite in agenda tra ottobre e novembre. Il tutto prendendo atto di quanto dirà il campo, al fine di partorire la doppia partita della vita negli spareggi di marzo. La passione di Gattuso un’arma a doppio taglio? Credo che il neoselezionatore sappia, nel suo mestiere di allenatore, mettere molto delle esperienze vissute da calciatore. E la loro comprensione. Responsabilità e pressione, quindi, saranno dosate e unite a una necessaria leggerezza per alimentare nel giusto modo gli stati d’animo dei singoli convocati».