Il personaggio

Lucio Bizzini e l’abitudine della Serie A a porte chiuse

L’ex nazionale rossocrociato, rinomato psicologo, si sofferma sull’emergenza coronavirus legata al calcio italiano
Un San Siro deserto, a Milano, accoglie la sfida di Europa League fra Inter e Ludogorets. © AP/Emilio Andreoli
Marcello Pelizzari
06.03.2020 16:07

La Serie A italiana sta per tornare. A porte chiuse, con ventuno, nuove regole dettate dal gruppo dei medici sportivi onde evitare il propagarsi del coronavirus all’interno di spogliatoi e stadi vuoti. Bene, ma come cambieranno le dinamiche in campo? Lo abbiamo chiesto a Lucio Bizzini, psicologo ed ex nazionale svizzero.

Lucio Bizzini ha alle spalle 41 partite in rossocrociato, oltre ad una lunga carriera in Lega Nazionale. Tutta in Romandia, fra Chênois, Servette e infine Losanna. Tutta in Romandia perché, oltre a dare i calci ad un pallone, questo difensore insisteva per portare avanti un altro percorso. All’università di Ginevra. Laurea nel 1977 e dottorato di ricerca nel 1985. Un calciatore trasformatosi in psicologo, per farla breve. A cui, appunto, ci siamo rivolti per capire come sarà la Serie A italiana a porte chiuse.

«Come in allenamento»

La premessa, va da sé, è legata al coronavirus. E alle misure draconiane adottate. «In Italia, anche se il virus è presente in tutta Europa oramai, c’è una situazione complicata. La più complicata di tutte. Quindi, di riflesso, è difficile prendere le decisioni giuste, come la Serie A a porte chiuse. Sono scelte estreme, ma necessarie visto che il Paese è sinistrato». Sul giocare senza spettatori, l’ex nazionale è piuttosto chiaro: «È come giocare le partitelle in allenamento, almeno questo è quello che hanno spiegato gli stessi protagonisti. Si crea un clima surreale, proprio perché il pubblico non c’è. Detto ciò, se cominciamo a giocare una decina-ventina di incontri a porte chiuse questo surrealismo farà spazio all’abitudine». Un’abitudine strana, diversa, al di là delle contingenze. «Mi viene in mente un fumetto, Hors-jeu. Gli autori si erano immaginati che il calcio, fra le altre cose a causa delle ripetute violenze, si sarebbe giocato senza spettatori. E dissero, in modo categorico: il pallone è morto. Il perché è semplice. Questo sport resta vivo solo se attorno al campo c’è calore, c’è un tifo, c’è qualcosa. Ora siamo in una fase interlocutoria, con la speranza che finisca presto. Ma, temo, passeranno almeno quattro o cinque mesi. Perciò abituiamoci, ricordando però com’era il calcio di prima. Se mi metto nei panni di chi va in campo, dico che tolto lo choc iniziale di un San Siro vuoto i giocatori penseranno al loro. A vincere».

«Prevarrà la disciplina»

Il gruppo dei medici sportivi della Serie A, nel frattempo, ha messo nero su bianco alcune regole (ventuno) per una sana convivenza all’interno degli stadi. L’obiettivo è evitare che il virus spopoli nonostante il regime delle porte chiuse. Se uniamo queste nuove regole a quelle imposte tramite decreto del presidente del Consiglio dei ministri, ci riesce difficile immaginare come i giocatori possano abbracciarsi dopo un gol. Della serie: e il discorso sul mantenere le distanze? Palla a Bizzini: «Le esplosioni di gioia ci saranno eccome, ma penso che si limiteranno a qualcosa di personale e individuale. Gli stessi giocatori, fra di loro, si condizioneranno in merito. Prevarrà l’autocontrollo».

All’epoca del Lucio Bizzini calciatore le esultanze erano molto meno teatrali rispetto ad oggi. Come se, pur senza un virus in circolazione, ci fosse maggiore disciplina. «È vero, anche se il gioire assieme era un elemento portante anche ai miei tempi. Ed era davvero bellissimo. In definitiva, c’era meno cinema mentre adesso i vari bomber si inventano di tutto e di più, forti del fatto che i social garantiscono loro una bella visibilità. E allora questa crisi, se non benvenuta perché sarebbe dire troppo, almeno ha avuto il potere e il merito di riportare alla luce comportamenti e valori perduti».

«Esultanze personali»

Detto dei gol, il paradosso per certi versi rimane: il calcio è uno sport di contatto, sia con gli avversari sia fra compagni. Queste misure, al contrario, tendono a tenere separati il più possibile anche gli stessi componenti di una squadra. Come si fa a fare gruppo? «Non vedo cambiamenti epocali in questo senso. Sì, il medico in queste settimane farà un po’ da guardia. Ma i calciatori, lo dico per esperienza, rispetto alla popolazione sono capaci di gestire meglio l’ansia. Di più, sanno adattarsi e convivere con l’incertezza. Ecco, la loro tolleranza all’incertezza è più alta rispetto agli altri. E nelle dinamiche fra compagni non ci sarà spazio per la paura. Ci si fiderà ancora l’uno dell’altro, contando su concetti quali la solidarietà e il rispetto. Certo, ci saranno sempre le pecore nere. Ma i cosiddetti leader di uno spogliatoio troveranno il modo per indirizzarli».

A proposito di rispetto, Bizzini cita un episodio della sua carriera: «Una volta, tornai da un campo d’allenamento in Africa con la febbre alta. Feci le analisi del caso, proprio per rispetto verso i compagni. Il dottore mi disse che avevo preso l’epatite B. Ero scosso, ma tornando a casa trovai mia moglie sorridente. Mi disse: cos’è quella faccia? Le spiegai l’accaduto, ma mi rassicurò al volo. Il medico si era sbagliato e aveva telefonato con tutte le scuse del caso».

«Si vive anche senza calcio»

Un ultimo aspetto, più ampio, riguarda il significato dato al calcio. Abituati com’eravamo a dargli un’importanza totale e assoluta, oggi ci accorgiamo che si può vivere anche senza pallone. «In effetti è vero» la conclusione di Bizzini. «Lo sport non è tutto, anche se un tifoso sfegatato ora come ora è portato a chiedersi: che farò ora che tanti eventi sono stati annullati? È una domanda essenziale, questa, per capire e vedere se il vuoto lasciato dal calcio e dallo sport può essere riempito con dell’altra vita. Con delle letture, ad esempio. O con dell’esercizio fisico. Ho letto con interesse quello che hanno detto i ciclisti delle squadre bloccate a Dubai. Da soli, nelle rispettive stanze di albergo. Annoiati. È in questi modi che uno può riscoprire la creatività. È un passo che, volenti o nolenti, dobbiamo fare. Perché tutti speriamo che questa epidemia passi, ma per un po’ resterà fra noi».

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