L'intervista

Massimo Busacca: «Ben venga insistere sulla tecnologia, ma la priorità resta la formazione»

Il mondo dell'arbitraggio è in continua evoluzione, tra VAR e nuovi supporti da sperimentare: ne parliamo con il direttore della Divisione arbitri FIFA
Massimo Busacca, 56 anni, guida la Divisione arbitri FIFA dal 2011. © FIFA
Massimo Solari
12.09.2025 06:00

Massimo Busacca non si espone spesso. Ma quando lo fa, la sua determinazione e chiarezza rendono naturale l’ascolto. Accadeva già nella veste di direttore di gara, lungo una carriera prestigiosa, ed è così anche oggi, riflettendo da direttore della Divisione arbitri FIFA. Lo abbiamo intervistato in una fase alquanto effervescente per quanto riguarda il settore dei fischietti.

Un’indiscrezione, per iniziare. Ma è vero che Massimo Busacca è tornato ad arbitrare? E, per di più, una partita ad alto rischio?
«È vero. Martedì ho diretto il match tra FIFA Legends e UEFA Legends, con i presidenti Gianni Infantino e Aleksander Ceferin nella veste di capitani. Non lo nego, mi sono tremate un po’ le gambe, visto che si è giocato a San Siro, uno stadio nel quale - per uno strano scherzo del destino - non ho mai diretto una gara in carriera. Riprovare la passione per il fischietto in bocca e l’adrenalina del campo è stato bello ed emozionante, a maggior ragione a fianco di così tanti campioni del passato».

Tornando al suo ruolo di direttore della Divisione arbitri FIFA, presto volerà in Cile, dove è in agenda il Mondiale maschile Under 20. Perché questo torneo è particolarmente importante anche per il suo team?
«Ad avere grande rilievo e valore, innanzitutto, è la competizione. Parliamo infatti di un contesto molto indicativo, nel quale si esprimono numerosi giocatori destinati a sfondare ai massimi livelli. Io, per dire, ho avuto la possibilità di prendere parte a due Mondiali U20, e in quello del 2005 diressi un’Argentina-Brasile con Lionel Messi protagonista. Insomma, si tratta di un torneo che spicca per qualità e agonismo, ma pure di un’occasione a livello arbitrale per misurare le potenzialità di profili che potrebbero venire selezionati per la Coppa del Mondo 2026 in Canada, Messico e Stati Uniti. A contare, lungo questo mese, non sarà ad ogni modo solo la prestazione sul rettangolo verde. Per il sottoscritto, eventi come quello cileno costituiscono un’occasione d’insegnamento preziosissima, sul piano tecnico, fisico, medico e - non da ultimo - tecnologico».

Già, poiché per l’occasione verrà sperimentato il Football Video Support (FVS), strumento istituito per supportare le federazioni e le competizioni meno attrezzate sul piano economico e quindi in difficoltà nell’allestire l’articolato e dedicato sistema del VAR. Con quale obiettivo?
«Dopo le positive esperienze ai Mondiali femminili U17 e U20, e in aggiunta ai test che in questo momento vengono condotti nei singoli Paesi - penso alla Serie C italiana, per esempio - anche in Cile offriremo ad allenatori e giocatori la possibilità di sfruttare due challenge per rimediare a eventuali chiari errori arbitrali. Nel dettaglio, e sempre per le fattispecie previste dal protocollo VAR (quindi: gol, rigori, espulsioni dirette e scambio di identità) sarà possibile richiedere la revisione al video di un’azione considerata dubbia o valutata in modo sbagliato. Personalmente lo ritengo uno strumento educativo: disponendo di soli due jolly, e con il rischio di sprecarli, affidarsi all’FVS presuppone un’assunzione di responsabilità notevole per i principali attori del match».

Si tratta solo di un’alternativa o, a seconda dei responsi che darà, potrebbe persino diventare un alleato del VAR?
«Non escludo, per il futuro, un mix dei due strumenti. Gli allenatori che hanno sperimentato il Video Support sono stati felici di poter dire la loro. E anche qualora la decisione dell’arbitro non sia mutata, accettarla - dopo aver proceduto alla revisione video - è risultato più semplice».

A fare la differenza non è mai il VAR, ma l’intelligenza calcistica del direttore di gara

In un modo o nell’altro, comunque, continuate a offrire soluzioni extra-campo ad allenatori e giocatori. Ma, per certi versi, non si tratta di un autogol per la vostra classe?
«Premessa: non è l’arbitraggio ad aver voluto la tecnologia, ma un mondo sempre più legato al business, iper mediatizzato, nel quale nessuno gode nel perdere soldi per colpa di un errore. Tradotto: l’offerta risponde a una forte domanda. A continue sollecitazioni che arrivano dal calcio. E va bene. La mia priorità, tuttavia, è un’altra».

Quale?
«Continuare a lavorare e insistere sulla formazione degli arbitri. Perché a fare la differenza, alla fine, non è mai il VAR, ma l’intelligenza calcistica del direttore di gara. La sua capacità di comprendere e interpretare nel migliore dei modi le dinamiche di campo, non la conoscenza a memoria di regole e protocolli. Che cos’è un contatto? Chi l’ha provocato? E a che velocità? Anche all’ultimo Mondiale per club FIFA, chi è emerso sugli altri ha brillato per il suo football understanding. E questa, appunto, è una competenza sulla quale non possiamo smettere di lavorare e investire. Senza di essa, infatti, pure la tecnologia perde di senso e non funziona. Aiutare un arbitro, detto altrimenti, non deve significare sostituirne il ragionamento. In fondo, anche non decidere - aggrappandosi solo al VAR - rappresenta una non decisione. Ed è pericoloso. Non lo è, invece, condividere un dubbio di fronte al monitor».

In primavera saranno 10 anni di VAR. Già 10 anni. Quando si parla di tecnologia e arbitraggio, puntuale emerge lo spettro della deresponsabilizzazione del direttore di gara. Quanto, concretamente, avete dovuto fare i conti con questo effetto collaterale?
«È stato inevitabile, forse anche involontariamente. Ma l’obiettivo del cleaning the game, a mio avviso, è stato pienamente raggiunto. E ripeto: cleaning, pulire, non cambiare il calcio. La storia del calcio, prima del VAR, ha conosciuto diversi scandali. Episodi indimenticabili. Ecco, di questo oggi non si parla più. Mentre nel giro di uno o due anni, dell’interpretazione sbagliata di un arbitro non si ricorda praticamente più nessuno».

Arbitrare – e lei ha cercato di incarnare appieno questo ideale, in un’epoca senza VAR – significa assumersi le necessarie responsabilità. Rovesciando il discorso, la più grande sfida per il vostro settore è dunque di tipo umano, e non legata alla tecnologia?
«È proprio così. Nell’assidua e forsennata ricerca della perfezione, ci stiamo dimenticando della componente umana. Che fa parte della bellezza del calcio. Un margine d’imperfezione, dunque, andrebbe mantenuto, lavorando per contro e in modo deciso per limitare il più possibile i gravi errori. E, mi ripeto, per riuscirci occorre valorizzare il talento dell’arbitro, concentrarsi sulla sua leadership e capacità di imporsi in campo. Con personalità. Che non va confusa con l’arroganza. È giusto che l’arbitro coltivi il senso di umiltà, ammettendo eventuali sviste, così come reputo fondamentale - e un segno d’intelligenza - l’ascolto».

Nell’assidua ricerca della perfezione ci stiamo scordando della componente umana, che è bellezza

Come si allena, quindi, la personalità di un arbitro?
«Sulla personalità, che c’è o non c’è nel singolo, si può incidere poco. Sulla professionalità del direttore di gara, al contrario, abbiamo il dovere di lasciare il segno. È la nostra, la mia missione quotidiana. Poi, e lo riconosco, rispetto al passato si tende effettivamente a scordare il nome di uno o dell’altro fischietto, richiamando sempre e comunque il ruolo del VAR».

E la convince l’idea di affiancare ex calciatori agli arbitri attivi in sala VAR?
«Sono scettico. La sensibilità sui concetti di rischio o di negligenza potrebbe venire meno. Ciò, ad ogni modo, non equivale a chiudersi a riccio come categoria. Anzi. Con l’obiettivo di anticipare determinate situazioni, nel quadro della preparazione alle partite mettiamo a disposizione degli allenatori che hanno il compito di facilitare la comprensione - spesso tattica - del gioco promosso dalle squadre poi arbitrate. Ed è anche così che permettiamo al nostro gruppo di masticare calcio e, con la necessaria consapevolezza, di sorprendere, prendendo le decisioni giuste in campo».

È anche una questione di comunicazione. Di qui la volontà di implementare nei principali campionati il cosiddetto «announcement». Provocazione: ma se un tifoso – che è per sua natura di parte – non ritiene che sia rigore, spiegarglielo pure a parole non rischia di esacerbare ulteriormente gli animi?
«Se sfruttato con linguaggio chiaro, credo molto nell’announcement e nel suo effetto sui giocatori, allenatori e addetti ai lavori, come i giornalisti. Andare a rivedere un’azione al video e poi spiegare apertamente le ragioni della decisione finale abbassa la tensione. Indipendentemente dalla correttezza dell’interpretazione. I tifosi, in questo processo, vengono dopo. Non da ultimo, perché rimangono tifosi e difficilmente cambieranno idea. In questo senso, e torno ai test effettuati al Mondiale per club, andrà invece prestata molta attenzione alle immagini VAR analizzate al monitor dal direttore di gara e messe a disposizione del pubblico sui maxi-schermi degli stadi. Il rischio escalation, qui, esiste».

Correlati