La partita

«No, non ci saranno solo “buu”»

Dario Brentin è tra i maggiori esperti di sport e politica nei Balcani: «Svizzera-Serbia non si gioca in un buon momento per le relazioni tra Kosovo e Belgrado» – Rispetto a Russia 2018, il contesto sarà meno ostile: «Ma Xhaka e Shaqiri devono attendersi degli attacchi»
© EPA/Neil Hall
Massimo Solari
01.12.2022 06:00

Nei primi dieci giorni di Mondiali, sono stati aperti due procedimenti disciplinari per quella che potremmo definire la «questione balcanica». Nel mirino della FIFA sono finite sia la Federazione croata, sia quella serba. La prima, a seguito degli insulti e cori offensivi nei confronti di Milan Borjan, portiere del Canada di origini serbe. La seconda per la bandiera appesa nello spogliatoio in occasione del debutto contro il Brasile: una bandiera della Serbia - lo ricordiamo - che includeva la mappa del Kosovo ed era accompagnata dalla scritta: «Nessuna resa». I due episodi controversi, ad ogni modo, non sorprendono Dario Brentin, ricercatore e tra i massimi esperti in materia di sport e politica nei Balcani. «Il nazionalismo, con i suoi discorsi e i suoi gesti, ha permeato e continua a permeare la cultura del tifo nelle realtà della post Jugoslavia. In questi Paesi, sport e identità vanno spesso di pari passo. Avviene anche altrove, certo, ma per le selezioni balcaniche il fenomeno è decisamente marcato».

Non tutto può essere filtrato

La Svizzera se n’è accorta in più occasioni. L’11 settembre del 2012, in occasione del match con l’Albania valido per le qualificazioni ai Mondiali del 2014, Behrami, Xhaka e Shaqiri vennero per esempio subissati di fischi dal pubblico avversario presente a Lucerna poiché ritenuti dei traditori. Lo scorso marzo, invece, una costola importante della diaspora conosciuta negli anni Novanta aveva invaso - festante - il Letzigrund, per la prima amichevole della storia tra rossocrociati e Kosovo. La partita che ha segnato la storia moderna del calcio elvetico è però andata in scena ai Mondiali russi del 2018. E ora, sì, c’è chi teme che le tensioni emerse a Kaliningrad presentino il conto a Doha. Cosa aspettarsi, dunque, dal match di venerdì al 974? «Xhaka e Shaqiri saranno provocati, ne sono abbastanza sicuro» indica Brentin: «Non escluderei nemmeno attacchi mirati e pianificati con un certo anticipo. Magari tramite striscioni. Fortunatamente, gli organizzatori si stanno dimostrando piuttosto rigorosi nei controlli all’entrata degli stadi. Il problema, su questo piano, è che determinati messaggi possono presentare una duplice interpretazione. E così, appunto, la scritta “Serbia-Kosovo” può evocare il genocidio in alcuni e suscitare un significato diverso in altri. L’approccio della stessa FIFA appare sfocato. Basta osservare quanto accaduto con i tifosi iraniani».

Se c’è una parte che alimenta di proposito le tensioni, è quella serba. Dirò di più: Vucic è solo felice del match tra Serbia e Svizzera
Dario Brentin

La guerra delle targhe

La criticità principale, sottolinea Brentin, rischia di essere un’altra: «Nessuno potrà impedire ai tifosi serbi di fischiare, ululare e insultare pesantemente i giocatori svizzeri di origine albanese. Nel migliore dei casi si tratterà di “buu”. Ma non credo che assisteremo solo a questo. Non bisogna infatti dimenticare la portata della partita: chi vince vola agli ottavi e lo strumento della provocazione - in fondo - è tra i più elementari quando si tratta di aiutare la propria squadra». Sullo sfondo, poi, la situazione contingente tra i popoli interessati non contribuisce a rasserenare l’ambiente. «La partita non va in scena in un buon momento» conferma Brentin. Ricordando le tensioni presenti soprattutto al confine nord del Kosovo, «dove nelle scorse settimane - per protesta - si sono dimessi dalla propria carica pubblica numerosi funzionari serbi». Da diversi mesi è d’altronde in corso la cosiddetta «guerra delle targhe», con l’obbligo per i cittadini serbi del Kosovo di sostituire le immatricolazioni rilasciate da istituzioni di Belgrado con quelle di Pristina. L’Alto rappresentante dell’UE per la politica estera, Josep Borrell - ed è notizia di qualche giorno fa - ha annunciato un accordo tra le parti. Un compromesso che dovrebbe scongiurare qualsivoglia escalation. «La retorica incendiaria del presidente serbo Aleksandar Vucic, tuttavia, non aiuta» indica Brentin: «Se c’è una parte che alimenta di proposito le tensioni, è quella serba. Dirò di più: Vucic è solo felice del match tra Serbia e Svizzera». Già, perché Belgrado continua a non riconoscere l’indipendenza e la sovranità statale del Kosovo. «E così - prosegue l’esperto - la polarizzazione rimane all’ordine del giorno in queste regioni. Parliamo di una relazione davvero complessa. Figlia della guerra e basata sul concetto di “altro”. Senza prosperità economica, i Paesi in questione prosperano al contrario sulle posizioni di forze politiche radicali. Soprattutto in Serbia - e ritorno a Vucic - i discorsi di natura etnica sono indispensabili per restare al potere».

Poteri e simboli identitari

Peccato che i calciatori non sono politici. O, perlomeno, non dovrebbero esserlo. «Ma l’identità - ammonisce Brentin - è qualcosa di potentissimo. In particolare quella transnazionale e intrinseca alla diaspora». Il concetto etnico di grande Albania, già. «Paradossalmente, questi sentimenti risultano addirittura più forti tra chi non abita più nei Balcani. Vi sono simboli, come l’aquila bicefala, che ne racchiudono l’essenza. I simboli, però, sono malleabili e interpretabili differentemente a seconda del contesto. Sempre l’aquila, per esempio, non ha una connotazione religiosa come il saluto serbo a tre dita. E per alcuni è una banale rappresentazione della propria identità nazionale». Brentin si riallaccia quindi al procedimento disciplinare citato in avvio. «Nel caso della bandiera appesa nello spogliatoio serbo ho letto molte speculazioni. La verità è che conosciamo poco, o pochissimo della storia. Per dire: non si è trattato di una dichiarazione ufficiale della Federazione, così come lo scatto non è stato veicolato su canali ufficiali. No, all’improvviso è apparso sul web, per altro senza giocatori o membri dello staff ritratti a fianco della bandiera. Ciò non significa che l’immagine sia stata contestata in patria. Tutt’altro. Il suo significato, per quanto offensivo e moralmente problematico da un punto di vista politico, riflette un punto di vista tutto fuorché marginale nella popolazione serba». Non facilitando, aggiungiamo noi, l’avvicinamento al sfida decisiva del gruppo G. Uno dei protagonisti, Granit Xhaka, ha comunque promesso che gli errori del passato non si ripeteranno. «Sono un professionista, giocheremo a calcio» ha affermato negli scorsi giorni. «Anche festeggiare il giorno dell’indipendenza - o della bandiera - albanese però non semplifica le cose in questo particolare momento» rileva Brentin, commentando il post pubblicato dal capitano rossocrociato il 28 novembre. «La libertà di espressione, anche sul piano identitario, dovrebbe comunque rimanere una prerogativa dell’essere umano. Calciatori compresi».

Le tre dita di Milan Borjan

Nel 1987, quando venne al mondo Milan Borjan, la Jugoslavia era ancora un tutt’uno. La città di Knin (Tenin), suo luogo natìo, tecnicamente figurava (e figura tutt’oggi) in Croazia, ma per mezzo della maggioranza serba divenne capitale della Repubblica autoproclamata di Krajina. Nel 1995, quando la città fu riconquistata dai croati, Borjan era già fuggito a Belgrado con i genitori, prima di trasferirsi in Canada, dove sarebbe diventato il portiere della nazionale. Negli anni, tuttavia, le foto scattate con le magliette a supporto della Krajina - teatro di massacri di guerra - hanno suggerito in modo inequivocabile gli ideali del giocatore della Stella Rossa. «Un’offensiva dei tifosi croati nei suoi confronti - durante il match con il Canada - era dunque attesa» rileva Dario Brentin. Manifesti provocatori, cori e insulti, finiti per l’appunto nei radar della FIFA. «Le modalità e la veemenza degli attacchi, però, sono state sorprendenti» aggiunge il ricercatore: «Hanno infatti smentito l’idea di tifo che si poteva immaginare per il torneo in Qatar. La strategia di una parte dei sostenitori croati ha ricordato quelle adottate a livello di club. La grammatica, per intenderci, era più familiare a uno scontro tra Stella Rossa e Dinamo Zagabria». Borjan, non a caso, ha reagito, mostrando il saluto a tre dita, una forma di autoidentificazione serba. «Una reazione spontanea, non preventivata» indica Brentin: «In questo particolare caso, ritengo Borjan una vittima. Ma il contesto conta e le controverse prese di posizione del portiere - di stampo fascista secondo una possibile chiave di lettura - non vanno scordate».
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