«I miei calci nel sedere al piccolo Kobe Bryant»

«Sono rimasto senza parole, certe disgrazie non trovano un senso». Luciano Grigioni, per tutti Ciccio, ha reagito così alla morte di Kobe Bryant. Alla fine degli anni Ottanta, quando era dirigente dell’Olimpia Pistoia, il manager ticinese si imbatté nel piccolo Kobe, giunto in Italia al seguito del padre cestista.
«A quell’epoca Kobe era un ragazzino molto vivace e un po’ ribelle, innamorato pazzo della pallacanestro», racconta Ciccio Grigioni ricordando la leggenda dei Los Angeles Lakers, scomparsa ieri a 41 anni in un incidente di elicottero. «Aveva il basket nel sangue e un pallone sempre in mano. Ci andava pure a dormire».
Pistoia è stata la terza tappa italiana della famiglia Bryant dopo Rieti e Reggio Calabria. In Toscana papà Joe giocò due campionati di fila tra il 1987 e il 1989, prima di trasferirsi a Reggio Emilia. In totale furono sette le stagioni da lui trascorse nel Belpaese dopo gli otto anni in NBA con Philadelphia, San Diego e Houston.

Uno contro cinque
Kobe, nato a Philadelphia nel 1978, visse nella penisola dai 6 ai 13 anni di età. Un’esperienza importante e formativa, tant’è che non dimenticò mai la lingua di Dante, coltivando pure la passione per il calcio e per il Milan. Ma era il basket il suo grande amore. «Mentre il padre giocava nei professionisti, lui dominava a livello giovanile con l’idea di sfondare in NBA», racconta Grigioni. «A Pistoia, quando era in campo con i suoi coetanei, la situazione era complicata, vista la sua netta superiorità. I suoi compagni di squadra sapevano fare poco o niente, mentre Kobe, dal punto di vista tecnico e qualitativo, era avanti di almeno due anni. In partita andava a rubare il pallone ai compagni invece che agli avversari. Voleva avere sempre il controllo del gioco per andare a tirare e segnare. Tutto da solo, uno contro cinque. Prendeva la palla direttamente dalla rimessa e da quel momento gli altri non esistevano più».

Invasioni di campo
La vivacità del piccolo Kobe si palesava anche durante le partite del padre. «Appena c’era un time-out, il ragazzino correva in campo con il suo pallone e si metteva a tirare da tre punti. Io lo inseguivo, lo prendevo per le orecchie e lo trascinavo fuori dal parquet. Confesso di avergli anche rifilato qualche calcio nel sedere. Mi sono sempre chiesto se, qualora ci fossimo rivisti, si sarebbe ricordato di quelle pedate. E se si sarebbe vendicato».
Tanti anni dopo
Negli scorsi anni, dopo il ritiro di Bryant avvenuto nel 2016, Ciccio e Kobe si sono finalmente rivisti. «È successo due volte, una a Los Angeles e una in Italia. Si ricordava di me e anche dei calci nel sedere, ma per fortuna ci abbiamo riso sopra. Abbiamo parlato della sua infanzia in Italia, un Paese al quale è sempre rimasto legato e che ha continuato a frequentare in vacanza. Amava la pasta fatta bene. A Los Angeles non mancano i buoni ristoranti di cucina italiana, ma Kobe voleva godersi quella vera».
Voglia di emergere
Ciccio Grigioni ha seguito solo distrattamente il cammino di Bryant con i Lakers, non essendo un grande tifoso della NBA: «Sono legato all’Eurolega, dove il basket è più sport e meno intrattenimento. Infatti Kobe lo diceva sempre che aver iniziato a giocare in Europa lo ha aiutato a diventare un giocatore più completo».
In campo Kobe aveva sempre il sorriso sulle labbra, come quando era bambino: «Ha conservato la vivacità, l’energia e l’amore per il gioco che aveva da piccolo. Il talento ce l’aveva in tasca, ma la differenza l’hanno fatta il duro lavoro, il sacrificio, la voglia di emergere e di vincere. Anche il padre aveva talento e tanti punti nelle mani, ma non aveva la classe, la lucidità e la voglia di lavorare del figlio».