Il fair play finanziario va in pensione e i club più ricchi fiutano già l’affare
Nasser Al-Khelaïfi ha applaudito. Più che soddisfatto. E questo, per certi versi, suggerisce già molte cose. Nel discorso che ha aperto l’assemblea generale dell’Associazione dei club europei (ECA), lo scorso 28 marzo, il suo presidente ha promosso a pieni voti il nuovo strumento che dal 1. giugno monitorerà i conti delle società calcistiche del vecchio continente. Il sostituto del controverso fair play finanziario, già, in vigore dal 2011 e - nel frattempo - dimostratosi più volte fallace. «Le regole riviste sono state concepite per garantire un miglior controllo della spesa, incoraggiando al contempo gli investimenti che assicureranno un futuro sostenibile del nostro sport a lungo termine» ha dichiarato l’imprenditore qatariota, numero uno - non lo abbiamo scordato - anche del PSG. Le sue parole, di fatto, hanno anticipato il voto odierno del Comitato esecutivo dell’UEFA, deciso a lasciarsi alle spalle un’altra delle eredità scomode di Michel Platini. Un regolamento tanto nobile negli intenti quanto superato, o meglio travolto dagli eventi. Pandemia in primis.
Cedere un po’ per non crollare
Proprio il flagello del coronavirus ha eroso lo stato patrimoniale di molti. E, di riflesso, accelerato la riforma. La montagna di debiti e i 7 miliardi di euro di mancati ricavi, accumulati dall’élite del calcio europeo tra il 2020 e il 2021, hanno reso inevitabile la sterzata. «Un’evoluzione virtuosa», preferiscono definirla i suoi fautori. Che, stringi stringi, sono i club più facoltosi. Coloro, e qui torniamo ad Al-Khelifi, che rischiano di approfittare del rinnovato impianto normativo. Scrollandosi così di dosso delle catene contabili che iniziavano a dare fastidio. Troppo fastidio. Citiamo Gianfranco Teotino, dalla Gazzetta dello Sport: «I ricchi potranno ricominciare a spendere molto, ma molto di più di chi ricco non è». E non è un caso che molti osservatori abbiano intravisto nella mossa di Nyon, un chiaro cedimento per contenere gli ardimenti di alcune realtà scomode. Quelle, per intenderci, che avevano sposato il progetto di Superlega.
Addio equilibrio competitivo
La rivoluzione, se vogliamo, sarà anche semantica. Sì, perché il concetto di «fair play» sparirà con le buone intenzioni di chi l’aveva coniato. Spazio al «Regolamento per licenze dei club e la sostenibilità finanziaria». Un obiettivo, quest’ultimo, che si tradurrà nel principale cambio di paradigma. Il sistema precedente, in effetti, mirava all’equilibrio competitivo. A limitare, insomma, la forbice tra le super potenze e i club medio-piccoli. Da giugno, e più concretamente dal 2025 quando le nuove regole saranno a regime, i patti saranno diversi. Spendi centinaia e centinaia di milioni? Non fa niente, purché non vi siano trucchi contabili - dalle sponsorizzazioni gonfiate alle plusvalenze - e la solvibilità e la stabilità finanziarie vengano garantite e puntualmente attestate. Tradotto: l’aggiramento delle normative perpetrato da Manchester City e PSG - con grande imbarazzo per l’UEFA e quasi un nulla di fatto sul fronte delle sanzioni - non vuole essere rivissuto. Di qui la revisione delle condizioni poste alle società, che Nyon - per apparire equa e intransigente - ha ammantato con scadenze rigide e severi indicatori.
Sinora, quantomeno nei principi, i club erano tenuti a spendere quanto incassato. Non un centesimo di più. Ebbene, in futuro varrà una percentuale delle entrate. Per la precisione, il costo totale della rosa (composta dalla somma degli stipendi, le commissioni per agenti, le spese di mercato e gli ammortamenti) non dovrà superare il 70% dei ricavi. Niente salary cap all’americana, dunque, indigesto - sul piano legale - all’Ue. Il problema? I club dei campionati più ricchi, su tutti la Premier League innaffiata dai diritti tv, saranno inevitabilmente avvantaggiati. A maggior ragione sul breve termine, dato che il citato limite di spesa sarà raggiunto gradualmente: nel primo anno si attesterà ancora al 90% e nel secondo all’80%. La Bundesliga, per dire, non l’ha presa bene. E preoccupante, andando al sodo, è pure la situazione in Serie A.Nella stagione 2020-21, per dire, solo una big avrebbe soddisfatto il criterio di sostenibilità nel rapporto tra costo della rosa e ricavi delle big: l’Atalanta (47%). Milan (90%), Juventus (99%), Inter (109%), Lazio (112%), Napoli (114%) e Roma (135%) avrebbero per contro fatto scattare l’allarme.
Deficit triennali fino a 60 milioni
Detto del controllo dei costi (che tra l’altro sarà effettuato nell’anno solare), l’equilibrio finanziario o pareggio di bilancio che dir si voglia dipenderà sia dal conto economico sia - ed è una novità - dal patrimonio netto. Il fair play finanziario, al proposito, ammetteva un deficit di 30 milioni di euro in tre anni, da coprire con aumenti di capitale o donazioni. Da giugno, invece, il disavanzo concesso nel triennio sarà di 60 milioni. Occhio però: a differenza del passato, non sarà possibile dedurre le uscite virtuose per settore giovanile, calcio femminile e stadio. E se il patrimonio netto è negativo dovrà migliorare del 10% annuo. Infine, o forse prima di tutto considerato il profondo rosso delle ultime stagione, v’è la solvibilità societaria. E, quindi, la copertura dei debiti. Le verifiche annuali non saranno quattro - una più - e in tre occasioni condotte dall’UEFA. Di più: i creditori andranno saldati entro 90 giorni dalla scadenza dei termini. Va da sé, chi non rispetterà le nuove regole sarà punito. Seriamente. E secondo una griglia di sanzioni non discrezionale come lo era sino ad oggi. Le multe verranno stabilite in modo progressivo, in relazione alla violazione e soppesando eventuali recidive. Quanto? Dal 10 al 100% dell’importo sforato. Qualora non bastasse, a cascata subentreranno la riduzione della rosa, il divieto d’impiego dei nuovi acquisti, la penalizzazione punti e l’esclusione dalle competizioni.
