Thibaut Monnet, una vita per l’hockey: «A 40 anni lascio senza rimpianti»
A 40 anni, dopo un’intera stagione saltata a causa di una commozione cerebrale, Thibaut Monnet ha annunciato il ritiro. Il cecchino romando, in forza all’Ambrì Piotta tra il 2015 e il 2018, ha chiuso la carriera a Sierre, nel suo Vallese. Poco distante, con la maglia del Martigny, aveva iniziato il suo splendido viaggio nell’hockey, coronato da due titoli nazionali vinti con gli ZSC Lions.
Thibaut,
sei stato tu a scegliere di smettere o è stato l’ultimo infortunio a decidere
al posto tuo?
«Diciamo
che è stato il destino. Va bene così, l’ho accettato serenamente. Alla mia età
si può lasciare senza rimpianti. La passione e il piacere per il gioco erano
intatti, quindi avrei fatto fatica a dire basta senza un segnale del mio corpo.
L’infortunio mi ha aiutato a capire che era arrivato il momento giusto. Sono
felice di aver chiuso il cerchio proprio a Sierre, nel mio Vallese».
Il Sierre vuole una nuova pista. Un progetto ambizioso che vede Chris McSorley in prima fila...
«So che ci sono ancora delle procedure e delle votazioni da superare, ma una cosa è certa: il club e la regione hanno bisogno di una nuova infrastruttura. La Graben è proprio malconcia, come hanno dimostrato alcuni recenti cedimenti».
Cosa c’è
nel tuo futuro?
«Insieme ad
altri due ex giocatori, Gil Montandon e Yannick Rebetez, ho creato un’agenzia
per accompagnare lo sviluppo personale e sportivo degli atleti, prima, durante
e dopo la carriera».
Veniamo
alla tua, di carriera. Hai smesso a 40 anni, ma in Lega nazionale avevi
iniziato a 15...
«Ricordo
l’esordio in NLB con il Martigny, in linea con Fedulov e Rosol, i migliori
marcatori del campionato. Non fu facile gestire le emozioni».
Fu
l’inizio di un lungo viaggio.
«Nel 1999
passai al Losanna, sempre in B. Poi, nel 2000, debuttai nella massima serie con
il La Chaux-de-Fonds. Il mio primo gol in NLA lo segnai con la spalla, contro
lo Zurigo del grande Ari Sulander, con il quale ho poi vinto due titoli
nazionali. La mia carriera è stata costellata da simpatiche coincidenze».


Facci
altri esempi.
«A Losanna
giocai con il mio idolo, Slava Bykov, che chiuse lì la sua grande carriera. La
mia prima partita in NLA, invece, fu alla Valascia. Perdemmo 1-0 e a segnare
per l’Ambrì fu uno dei miei migliori amici d’infanzia, Cédric Métrailler, pure
lui al debutto nella massima serie. Non tutti sanno che nell’estate del 1999
partecipai a un campo d’allenamento con l’Ambrì di Larry Huras, dormendo a casa
di Alain Demuth, anche lui di Martigny. Nel campionato 1999-2000, sfruttando il
partenariato tra Losanna e HCAP, disputai cinque gare con gli juniores
biancoblù. Mi ricordo di Duca e Cereda».
Un club
che ha segnato il tuo percorso è il Friburgo, nel quale hai giocato in tre
periodi diversi: dal 2001 al 2003, nel 2006-07 e dal 2013 al 2015.
«Da ragazzo
ero affascinato dal Gottéron di Bykov e Chomutov. Mio zio, Thierry Moret, giocò
con loro nel 1990-91 e grazie a lui andai spesso alla St. Léonard. Firmare per
i burgundi fu qualcosa di magico. Nel 2006-07 ci tornai in prestito dal Berna,
dopo una stagione difficile. Infine, nel 2013-14, scelsi il Gottéron per
provare a vincere il mio terzo titolo. Perdemmo in semifinale dopo una bella
regular season, chiusa al 2. posto».
Quest’anno
il Friburgo ha conosciuto lo stesso destino: 2. posto e semifinale persa. Hai
creduto che fosse la volta buona?
«Per come
giocavano, per come hanno gestito una stagione ai vertici e per come hanno
eliminato il Losanna nei quarti, mi aspettavo che arrivassero almeno in finale.
Ma i playoff sono una questione di dettagli e in semifinale i Lions si sono
dimostrati più forti nei momenti decisivi. Sono convinto che nei prossimi anni
il Gottéron festeggerà il suo primo titolo».
A Zurigo
hai trascorso gli anni più importanti. I titoli del 2008 e del 2012 arrivarono
dopo due regular season difficili, chiuse al 6. e 7. posto. La stessa cosa
capitò ai Lions che vinsero nel 2018. E pure quest’anno la prima parte della
stagione è stata deludente. Accendersi quando le cose contano è una
caratteristica del club?
«Sembrerebbe
di sì. Ai miei tempi, quando si avvicinavano i playoff, la squadra prendeva
consapevolezza della sua forza e cambiava marcia. Nei momenti importanti
eravamo sempre lucidi, stabili, in totale controllo delle emozioni. Credo che
sia questa la forza dello ZSC e lo si è visto anche quest’anno. Nei quarti
erano sotto 3-1 con il Bienne, ma non si sono fatti prendere dal panico.
Squadre come il Friburgo, invece, giocano di più sulle emozioni».


Vincendo
gara-4, lo Zugo ha riaperto la finale? O prevarrà il sangue freddo dei Lions,
in vantaggio per 3 a 1 nella serie?
«La squadra
di Tangnes si è liberata mentalmente e con gara-5 in casa può cambiare il
destino della serie. Però l’altro ieri i Lions non erano al top. Mi sono
sembrati un po’ tesi, imballati. La pressione del match point gioca brutti
scherzi».
L’attacco
dello Zurigo si appoggia al trio elvetico Malgin, Andrighetto, Hollenstein. Nei
playoff del 2008 e del 2012 c’eri tu tra i principali trascinatori dei Lions...
«Ho sempre
adorato i playoff. Non ho mai capito quei giocatori capaci di grandi cose in
regular season, ma che poi nella fase a eliminazione vengono sopraffatti dal
nervosismo. Quel tipo di pressione mi piaceva, mi stimolava. Sì, io nei playoff
mi sentivo alleggerito».
In 25
stagioni di Lega Nazionale hai girato mezza Svizzera, tra club ambiziosi e
altri meno. Sei soddisfatto del tuo percorso?
«Sì, sono
contento di aver conosciuto realtà differenti, in tre regioni linguistiche, in
club con storie e obiettivi molto diversi. A Berna e Zurigo ci sono andato per
vincere, a Losanna, La Chaux-de-Fonds, Friburgo e Langnau per crescere, ad
Ambrì per restare in NLA fino a 37 anni e mettere la mia esperienza al servizio
dei più giovani».
Oggi in
NHL brillano attaccanti svizzeri come Fiala, Meier, Hischier, Niederreiter e
Kurashev. Ragazzi partiti giovanissimi per il Nordamerica. La tua generazione
ha avuto meno opportunità oppure meno coraggio?
«Meno
opportunità. Quando noi eravamo ventenni, lo stile di gioco in NHL era più
fisico, sporco. Oggi è più fluido e gli svizzeri, bravi pattinatori, ne hanno
approfittato. Mi resta la soddisfazione di aver battuto i Chicago Blackhawks
con lo Zurigo di Sean Simpson, alla Victoria Cup del 2009. Noi eravamo
motivatissimi, loro un po’ meno. Li abbiamo sorpresi. È stato un passo
simbolico per tutto l’hockey svizzero».
Quasi
una premessa all’argento mondiale del 2013. Tu a Stoccolma giocasti una sola
partita. Quella medaglia la senti tua?
«Sì,
totalmente. Mi sono sempre sentito parte del gruppo, mi sono allenato ogni
giorno al 100%, pronto a dare una mano in caso di bisogno. Simpson mi ripeteva
continuamente che il giorno dopo mi avrebbe fatto giocare (ride, ndr.), ma la
squadra girava troppo bene per cambiarla. Ho capito il mio ruolo e mi tengo
stretto quell’argento. Conservo tanti bei ricordi di tutti i miei sette
Mondiali. Ma nulla supera le emozioni vissute alle Olimpiadi di Vancouver, nel
Paese dell’hockey».