L'intervista

Thibaut Monnet, una vita per l’hockey: «A 40 anni lascio senza rimpianti»

L’attaccante vallesano ha chiuso la sua lunga carriera, coronata dai titoli del 2008 e del 2012 con gli ZSC Lions: «Oggi come allora, lo Zurigo sa cambiare marcia nei playoff»
Fernando Lavezzo
27.04.2022 06:00

A 40 anni, dopo un’intera stagione saltata a causa di una commozione cerebrale, Thibaut Monnet ha annunciato il ritiro. Il cecchino romando, in forza all’Ambrì Piotta tra il 2015 e il 2018, ha chiuso la carriera a Sierre, nel suo Vallese. Poco distante, con la maglia del Martigny, aveva iniziato il suo splendido viaggio nell’hockey, coronato da due titoli nazionali vinti con gli ZSC Lions.

Thibaut, sei stato tu a scegliere di smettere o è stato l’ultimo infortunio a decidere al posto tuo?
«Diciamo che è stato il destino. Va bene così, l’ho accettato serenamente. Alla mia età si può lasciare senza rimpianti. La passione e il piacere per il gioco erano intatti, quindi avrei fatto fatica a dire basta senza un segnale del mio corpo. L’infortunio mi ha aiutato a capire che era arrivato il momento giusto. Sono felice di aver chiuso il cerchio proprio a Sierre, nel mio Vallese».

Il Sierre vuole una nuova pista. Un progetto ambizioso che vede Chris McSorley in prima fila...

«So che ci sono ancora delle procedure e delle votazioni da superare, ma una cosa è certa: il club e la regione hanno bisogno di una nuova infrastruttura. La Graben è proprio malconcia, come hanno dimostrato alcuni recenti cedimenti».

Cosa c’è nel tuo futuro?
«Insieme ad altri due ex giocatori, Gil Montandon e Yannick Rebetez, ho creato un’agenzia per accompagnare lo sviluppo personale e sportivo degli atleti, prima, durante e dopo la carriera».

Veniamo alla tua, di carriera. Hai smesso a 40 anni, ma in Lega nazionale avevi iniziato a 15...
«Ricordo l’esordio in NLB con il Martigny, in linea con Fedulov e Rosol, i migliori marcatori del campionato. Non fu facile gestire le emozioni».

Fu l’inizio di un lungo viaggio.
«Nel 1999 passai al Losanna, sempre in B. Poi, nel 2000, debuttai nella massima serie con il La Chaux-de-Fonds. Il mio primo gol in NLA lo segnai con la spalla, contro lo Zurigo del grande Ari Sulander, con il quale ho poi vinto due titoli nazionali. La mia carriera è stata costellata da simpatiche coincidenze».

A Losanna giocai con il mio idolo, Slava Bykov, che chiuse lì la sua grande carriera. La mia prima partita in NLA, invece, fu alla Valascia. Perdemmo 1-0

Facci altri esempi.
«A Losanna giocai con il mio idolo, Slava Bykov, che chiuse lì la sua grande carriera. La mia prima partita in NLA, invece, fu alla Valascia. Perdemmo 1-0 e a segnare per l’Ambrì fu uno dei miei migliori amici d’infanzia, Cédric Métrailler, pure lui al debutto nella massima serie. Non tutti sanno che nell’estate del 1999 partecipai a un campo d’allenamento con l’Ambrì di Larry Huras, dormendo a casa di Alain Demuth, anche lui di Martigny. Nel campionato 1999-2000, sfruttando il partenariato tra Losanna e HCAP, disputai cinque gare con gli juniores biancoblù. Mi ricordo di Duca e Cereda».

Un club che ha segnato il tuo percorso è il Friburgo, nel quale hai giocato in tre periodi diversi: dal 2001 al 2003, nel 2006-07 e dal 2013 al 2015.
«Da ragazzo ero affascinato dal Gottéron di Bykov e Chomutov. Mio zio, Thierry Moret, giocò con loro nel 1990-91 e grazie a lui andai spesso alla St. Léonard. Firmare per i burgundi fu qualcosa di magico. Nel 2006-07 ci tornai in prestito dal Berna, dopo una stagione difficile. Infine, nel 2013-14, scelsi il Gottéron per provare a vincere il mio terzo titolo. Perdemmo in semifinale dopo una bella regular season, chiusa al 2. posto».

Quest’anno il Friburgo ha conosciuto lo stesso destino: 2. posto e semifinale persa. Hai creduto che fosse la volta buona?
«Per come giocavano, per come hanno gestito una stagione ai vertici e per come hanno eliminato il Losanna nei quarti, mi aspettavo che arrivassero almeno in finale. Ma i playoff sono una questione di dettagli e in semifinale i Lions si sono dimostrati più forti nei momenti decisivi. Sono convinto che nei prossimi anni il Gottéron festeggerà il suo primo titolo».

A Zurigo hai trascorso gli anni più importanti. I titoli del 2008 e del 2012 arrivarono dopo due regular season difficili, chiuse al 6. e 7. posto. La stessa cosa capitò ai Lions che vinsero nel 2018. E pure quest’anno la prima parte della stagione è stata deludente. Accendersi quando le cose contano è una caratteristica del club?
«Sembrerebbe di sì. Ai miei tempi, quando si avvicinavano i playoff, la squadra prendeva consapevolezza della sua forza e cambiava marcia. Nei momenti importanti eravamo sempre lucidi, stabili, in totale controllo delle emozioni. Credo che sia questa la forza dello ZSC e lo si è visto anche quest’anno. Nei quarti erano sotto 3-1 con il Bienne, ma non si sono fatti prendere dal panico. Squadre come il Friburgo, invece, giocano di più sulle emozioni».

La squadra di Tangnes si è liberata mentalmente e con gara-5 in casa può cambiare il destino della serie. Però l’altro ieri i Lions non erano al top

Vincendo gara-4, lo Zugo ha riaperto la finale? O prevarrà il sangue freddo dei Lions, in vantaggio per 3 a 1 nella serie?
«La squadra di Tangnes si è liberata mentalmente e con gara-5 in casa può cambiare il destino della serie. Però l’altro ieri i Lions non erano al top. Mi sono sembrati un po’ tesi, imballati. La pressione del match point gioca brutti scherzi».

L’attacco dello Zurigo si appoggia al trio elvetico Malgin, Andrighetto, Hollenstein. Nei playoff del 2008 e del 2012 c’eri tu tra i principali trascinatori dei Lions...
«Ho sempre adorato i playoff. Non ho mai capito quei giocatori capaci di grandi cose in regular season, ma che poi nella fase a eliminazione vengono sopraffatti dal nervosismo. Quel tipo di pressione mi piaceva, mi stimolava. Sì, io nei playoff mi sentivo alleggerito».

In 25 stagioni di Lega Nazionale hai girato mezza Svizzera, tra club ambiziosi e altri meno. Sei soddisfatto del tuo percorso?
«Sì, sono contento di aver conosciuto realtà differenti, in tre regioni linguistiche, in club con storie e obiettivi molto diversi. A Berna e Zurigo ci sono andato per vincere, a Losanna, La Chaux-de-Fonds, Friburgo e Langnau per crescere, ad Ambrì per restare in NLA fino a 37 anni e mettere la mia esperienza al servizio dei più giovani».

Oggi in NHL brillano attaccanti svizzeri come Fiala, Meier, Hischier, Niederreiter e Kurashev. Ragazzi partiti giovanissimi per il Nordamerica. La tua generazione ha avuto meno opportunità oppure meno coraggio?
«Meno opportunità. Quando noi eravamo ventenni, lo stile di gioco in NHL era più fisico, sporco. Oggi è più fluido e gli svizzeri, bravi pattinatori, ne hanno approfittato. Mi resta la soddisfazione di aver battuto i Chicago Blackhawks con lo Zurigo di Sean Simpson, alla Victoria Cup del 2009. Noi eravamo motivatissimi, loro un po’ meno. Li abbiamo sorpresi. È stato un passo simbolico per tutto l’hockey svizzero».

Quasi una premessa all’argento mondiale del 2013. Tu a Stoccolma giocasti una sola partita. Quella medaglia la senti tua?
«Sì, totalmente. Mi sono sempre sentito parte del gruppo, mi sono allenato ogni giorno al 100%, pronto a dare una mano in caso di bisogno. Simpson mi ripeteva continuamente che il giorno dopo mi avrebbe fatto giocare (ride, ndr.), ma la squadra girava troppo bene per cambiarla. Ho capito il mio ruolo e mi tengo stretto quell’argento. Conservo tanti bei ricordi di tutti i miei sette Mondiali. Ma nulla supera le emozioni vissute alle Olimpiadi di Vancouver, nel Paese dell’hockey».