L’intervista

La Svizzera secondo Du Bois: «Da esperienze negative possono nascere trionfi»

L'ex difensore rossocrociato, a Riga come commentatore per la televisione romanda, ci parla della selezione rossocrociata in vista dei quarti con la Germania
Fernando Lavezzo
25.05.2023 06:00

Félicien Du Bois ha giocato sei Mondiali. L’ultimo nel 2016 a Mosca, il primo di Patrick Fischer allenatore. L’ex difensore di Ambrì Piotta, Kloten e Davos è a Riga come commentatore per la televisione romanda. Lo abbiamo incontrato.

Félicien, i rossocrociati dicono di avere più energia rispetto al quarto di finale perso un anno fa contro gli USA. È una cosa che percepisci anche tu dall’esterno oppure dobbiamo fidarci delle loro sensazioni?

«Non so se sia vero, ma a volte basta esserne convinti. Posso però immaginare che sia cambiato qualcosa nella preparazione per raggiungere il picco di forma in questi giorni. O magari hanno avuto più tempo libero per recuperare».

Come si vive la vigilia di un quarto di finale?

«Nella fase a gironi ogni partita conta, certo, ma hai sempre un domani. Puoi rimediare a un passo falso. Oggi no. Se perdi torni a casa. Credo comunque che la Svizzera abbia tutti i motivi per essere fiduciosa. Ha vinto sei partite su sette, ha giocato bene, ha preso buone abitudini. È già stata confrontata con situazioni di ogni tipo: è stata in svantaggio, ha giocato in 3 contro 5, ha avuto 9.000 tifosi contro, ha saputo ritrovare la calma dopo le provocazioni avversarie. Ha sempre risposto rapidamente alle avversità. In una partita secca, però, conta la forma del giorno. E contano gli episodi. Se all’inizio, per un fallo sfortunato, incassi una penalità di partita che ti costa due gol, tutto quello che hai fatto nelle prime due settimane non importa più. Non ne parla più nessuno».

Il giudizio sul nostro Mondiale dipenderà solo dal quarto di finale?

«È la legge dello sport professionistico, contano i risultati. Non dico che sia giusto. La Svizzera ha dominato quasi ogni avversario e ha confermato la sua crescita. Ma in caso di sconfitta contro la Germania tante cose verrebbero messe in discussione».

La sconfitta di martedì contro la Lettonia, in una gara inutile, può aver spezzato qualcosa?

«Lo escludo. Anzi, credo che Fischer possa farne buon uso. Servirà per ricordare ai suoi ragazzi quanto conti la disciplina. Potrà rimettere l’accento su questo aspetto importante, venuto meno proprio contro i padroni di casa dopo un torneo senza sbavature».

Cosa ti ha convinto di più di questa Svizzera?

«Sono rimasto impressionato dalla sua compattezza. Dal lavoro di gruppo. I cinque giocatori sul ghiaccio sono sempre vicini e coinvolti nell’azione. Gli attaccanti svolgono un lavoro enorme nel backcheck, mentre i difensori forniscono un grande apporto alla fase offensiva. Significa che c’è chiarezza a livello tattico. C’è connessione. Tutti sanno cosa fare e dove andare. Il portatore del disco ha sempre tante opzioni ‘‘facili’’. La compattezza difensiva fa sentire l’avversario in una morsa».

C’è qualcosa che ti preoccupa?

«Il passato recente. Ovvero il fatto che la Svizzera, nelle ultime partite importanti giocate contro la Germania, non sia riuscita a giocare come ci si aspettava. Harold Kreis, allenatore dei tedeschi, conosce benissimo la mentalità svizzera, il nostro campionato, i nostri giocatori. I tedeschi sono sempre contenti di poter rovinare la festa elvetica. Sono convinto che se avessero potuto scegliere l’avversario da affrontare nei quarti, avrebbero voluto proprio i rossocrociati. Noi un po’ di pressione l’abbiamo. I nostri giocatori di NHL non sono venuti qui per uscire ai quarti. La Germania, invece, ha tutto da guadagnare. Ha perso le prime tre partite del torneo con Svezia, Finlandia e USA, ma sempre con un solo gol di scarto. In seguito, con il coltello puntato alla gola, ha vinto quattro partite di fila».

Il tuo ultimo Mondiale, quello di Mosca 2016, è stato il primo di Fischer come head coach. Fu un disastro, con due vittorie e cinque sconfitte. Cosa ricordi?

«Fischi arrivò con tante idee. Voleva assolutamente inculcare la cosiddetta ‘‘svizzeritudine’’. Indossare la maglia della Nazionale doveva tornare ad essere un grande onore. Tutte cose buone. Ma per quel primo Mondiale non ebbe abbastanza tempo a disposizione. Arrivò a dicembre al posto di Glen Hanlon, con poca esperienza. Cercò di introdurre tante novità in poche settimane, ma alla fine prevalsero l’instabilità e la confusione. Gli è servito un po’ di tempo per creare quella mentalità e quella identità che oggi si vedono a colpo d’occhio, sul ghiaccio e fuori».

Eri con lui anche alle Olimpiadi di Pyeongchang 2018. Un’altra avventura senza lieto fine, nonostante le ambizioni da medaglia sbandierate alla vigilia...

«Fischer disse subito di essere stanco di sconfitte onorevoli e di voler andare oltre. Ma non sono convinto che noi giocatori, nonostante le dichiarazioni rilasciate ai media, ci credessimo davvero. Volevamo farlo, provavamo a convincere noi stessi, ma lo zoccolo duro della squadra continuava a pensare di essere ancora la piccola Svizzera. C’era una divario tra ciò che dicevamo ai media e ciò che eravamo davvero pronti a fare. Oggi è diverso: le ambizioni sono reali, concrete e condivise da tutti. È stato un processo. Io dico sempre che anche in campionato, prima di vincere il titolo, devi passare da un’esperienza negativa, perdendo una o due finali. Come è successo a Zugo e Ginevra. La Nazionale di Fischer ha fatto il suo percorso, ha imparato, è maturata. Nel 2018 ha vinto un argento, poi ha vissuto qualche delusione cocente, ora può fare il passo successivo. Speriamo».

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