Calcio

Le anime dell'Union Saint-Gilloise: dai Righeira ai big data

L’avversario del Lugano nei playoff di Europa League ha una storia affascinante – Il giornalista David Carretta vive a pochi passi dall’iconico Stade Joseph Marien: «Qui si canta Vamos a la playa e si reclutano giocatori con gli algoritmi»
©Reuters/JOHN THYS
Massimo Solari
09.08.2023 06:00

Quella dell’Union Saint-Gilloise è una lunga storia. Fatta di successi scoloriti, crolli inarrestabili, anonimato. E poi inaspettate rinascite. Una storia periferica e mitica, come il quartiere di Saint-Gilles e il suo stadio, il Joseph Marien. Giallo e blu sono i suoi colori. Mentre a scandirne le partite, da qualche anno a questa parte, è uno dei tormentoni musicali più popolari della musica leggera italiana. Insomma, un caleidoscopio. O meglio, una società in cui albergano più anime. L’ultima delle quali, è addirittura futuristica. A immergersi in questa affascinante realtà, fra due settimane, sarà il Lugano. Intanto, in attesa dell’andata dei playoff di Europa League, abbiamo iniziato a scavare. Non da soli. Ma insieme al giornalista David Carretta.

Uno stadio? No, una reliquia

«Da quanto vivo a Saint-Gilles? Oramai sono 17 anni» afferma il nostro interlocutore, corrispondente a Bruxelles per Il Foglio e Radio Radicale. Con l’«USG», nel cuore pulsante del Vecchio continente e all’ombra dei grandi rivali dell’Anderlecht, è stato amore a prima vista. «Dopo la tragedia dell’Heysel, alla quale ho purtroppo assistito dal vivo ad appena 10 anni, ho preso le distanze dal calcio. A tifare l’Union ci sono quindi finito per caso. Sono stati i miei figli a insistere affinché li portassi a vedere una partita». E com’è andata? «Ho scoperto un’atmosfera positiva» spiega Carretta. Per poi precisare il concetto: «Ho avuto modo di assaporare il senso del calcio popolare. Nessun obbligo di vincere, nessuna forma di astio o violenza verso gli avversari. No, più classi sociali riunite in un piccolo stadio da 9.000 posti. Bambini seduti sulle staccionate e, appunto, un clima di festa». Lo Stade Joseph Marien è in effetti qualcosa di unico. Un intruso discreto all’interno del Parc Duden, classificato come riserva naturale e - per questa ragione - vincolo che impedisce qualsivoglia ampliamento dell’impianto. La stessa tribuna principale, con la sua facciata Art Déco, è considerata patrimonio culturale della città. Per i sostenitori dell’Union, va da sé, si tratta di una reliquia. «E fosse per me e molti altri tifosi, prolungheremmo a oltranza le negoziazioni con le autorità locali per la realizzazione di una nuova arena, in modo da non andarcene mai» sottolinea Carretta. Già, perché la storia del club belga non è ammantata solo da ricordi e romanticismo. Nel 2018 non è cambiato tutto. Ma è cambiato molto. Carretta parla di «resurrezione». E a compiere il miracolo sono stati due investitori inglesi, Tony Bloom e Alex Muzio. Il primo è l’attuale azionista di maggioranza del club. Soprannominato «the lizard» (la lucertola) negli ambienti del poker, ha creato un impero nel mondo delle scommesse sportive e, un affare dopo l’altro, ha realizzato un primo sogno: acquisire il Brighton, società della sua città natale. Il suo braccio destro, socio di minoranza, presiede e gestisce le operazioni dell’USG, scelto minuziosamente. «Uno dei motivi per cui non abbiamo acquistato in Francia, in Italia o in Spagna è stato perché volevamo provare a vincere. Non si trattava solo di creare valore. L’investimento doveva anche divertirci» ha raccontato Muzio all’Independent. Ebbene, non ha ancora vinto, ma nel giro di cinque anni ha ritrovato il massimo campionato (45 anni dopo), sfiorato subito due titoli e centrato un quarto di finale di Europa League.

Il proprietario Tony Bloom cercava una storia. L’ha trovata, riuscendo pure a fare business
David Carretta, corrispondente a Bruxelles

«Cerchiamo bravi ragazzi»

L’eliminazione ad opera del Bayer Leverkusen, pochi mesi fa, David Carretta l’ha vissuta in presa diretta. Nel vicino stadio Constant Vanden Stock. Come sarà per il match contro il Lugano, la casa dell’Anderlecht (e prima quella del Leuven) ha ospitato l’USG. «Trattandosi dei rivali, una parte del tifo organizzato aveva boicottato gli ottavi con l’Union Berlin. Ma nei quarti il clima è stato incredibile. Alla fine, la passione dello Stade Joseph Marien è stata trasferita di qualche chilometro senza problemi». Di quella squadra, tuttavia, «è rimasto poco», tiene a precisare Carretta. «Come l’estate precedente, i migliori giocatori sono stati ceduti: penso all’ex capitano Teuma, al bomber Boniface o a Van der Heyden. Una plusvalenza dietro l’altra». Eccolo il prezzo da pagare per un club che ha abbracciato una filosofia di mercato oculata e al contempo d’avanguardia. Le linee guida, fondamentalmente, sono due: i big data e il carattere dei potenziali acquisti. Attraverso un processo che può durare quasi un anno, la direzione sportiva gestita dal nordirlandese Chris O’Loughlin incrocia dati e statistiche dei profili richiesti dallo staff tecnico, filtrandoli in base alle caratteristiche tecniche e al budget disponibile. I parametri di rendimento, da soli, però non bastano. Vengono pure setacciati i social media e condotte interviste con vecchi allenatori ed ex compagni di squadra per capire se il giocatore desiderato è «compatibile» con la cultura e i valori del club. «Sembra eccessivo, ma è solo per assicurarsi che siano bravi ragazzi» ha dichiarato Muzio sempre all’Independent. Nel radar della società finiscono perlopiù le leghe estere meno seguite o quelle di secondo livello. E non sorprende che le nazionalità rappresentate in prima squadra siano addirittura una quindicina. «Bloom - aggiunge Carretta - cercava una squadra che avesse una storia e necessitasse di una rinascita. Proprio come avvenuto con il Brighton. Non solo. Allargando la base dei sostenitori - di fatto si è creata una mania - e introducendo uno speciale reclutamento tarato sugli algoritmi, la nuova proprietà è riuscita a fare business. A essere economicamente sostenibile. Il che è indispensabile per sopravvivere nel calcio moderno».

Un mix di culture

Modernità e tradizione, dunque. Con da un lato l’ambizione e finanche la necessità di avere uno stadio di proprietà e dall’altro usi e costumi inscalfibili. «Saint-Gilles - ricorda David Carretta - nasce come quartiere popolare. Segnato dall’immigrazione portoghese, spagnola, in parte italiana, poi dei marocchini e degli algerini. In parte è ancora così, anche se nell’ultimo decennio la zona è diventata molto alla moda. Trasformandosi parzialmente. Oggi, per dire, vi risiedono anche molti francesi e parecchi funzionari europei. E lo stesso vale per Forest, un po’ più belga e secondo comune di riferimento dell’Union». Questo mix di culture e un’importante stratificazione sociale, prosegue il corrispondente italiano, «si riflettono anche sullo stadio, dove è possibile tifare e sorseggiare una birra al fianco di persone di origine e condizione economica completamente diverse. Un calderone bellissimo». Che ribolle a ritmo di musica. Sentite Carretta: «L’Union Saint-Gilloise è anche Vamos a la playa e Johnson Righeira. Il primo è diventato l’inno della squadra, il secondo un suo tifoso sfegatato, tanto da recarsi di tanto in tanto allo stadio. Trovandosi a Bruxelles per un concerto, uno dei due fratelli della celebre band italiana ha avuto la possibilità di assistere a una partita dell’USG. In mezzo ai Boys. Con l’attrazione che si è rivelata fatale».

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