Basket NBA

«LeBron James e il grande record di un capobranco scomodo»

Il nuovo re dei marcatori NBA raccontato da Riccardo Pratesi, giornalista della Gazzetta dello Sport e autore di alcuni volumi dedicati alla pallacanestro americana
Fernando Lavezzo
09.02.2023 06:00

Gli mancavano 36 punti per diventare il miglior marcatore NBA di tutti i tempi in regular season. Nella notte tra martedì e mercoledì, LeBron James, stella dei Los Angeles Lakers, ne ha segnati 38 contro gli Oklahoma City Thunder, raggiungendo quota 38.390. Tre in più di Kareem Abdul-Jabbar. Ne parliamo con Riccardo Pratesi, firma della Gazzetta dello Sport e autore del libro NBA Confidential - Fatti e misfatti dei fenomeni del basket americano.

Signor Pratesi, cosa aggiungono questi 38 punti al mito di LeBron?

«In sostanza, pochissimo. Almeno per appassionati e addetti ai lavori. Chi è LeBron James lo sappiamo da anni e non serviva altro per certificarne la grandezza. Nella forma, però, è un primato importante. Un’ulteriore legittimazione, soprattutto a livello di masse, di grande pubblico. Un’eredità lasciata ai posteri. Mi preme però sottolineare una cosa».

Ci dica.

«LeBron deteneva già un primato ancora più significativo, quello di punti nei playoff. Ovvero nel momento in cui si decidono le stagioni. Con 7.631, ha un grande margine su tutti, a partire da Michael Jordan (5.987) e dallo stesso Abdul-Jabbar (5.762)».

Come racconterebbe l’evoluzione del personaggio?

«LeBron è partito da una realtà estremamente depressa. Ha vissuto un’adolescenza povera, senza la certezza di avere il cheeseburger in tavola. Oggi è un’icona mondiale, ben al di là della pallacanestro. Io sono andato a visitare i suoi luoghi d’origine. L’Ohio e Cleveland non sono esattamente New York o Los Angeles. Akron, la cittadina in cui è nato e cresciuto, è un postaccio. Eppure oggi, fuori dal suo liceo, i turisti bussano alla porta. La sua villa, appena fuori Akron, è ovviamente inaccessibile, ma sul ciglio della strada ci sono auto parcheggiate e persone con il binocolo puntato per vedere chi entra e chi esce. Insomma, siamo al limite del fanatismo».

Come è evoluto il giocatore?

«È entrato in NBA nel 2003, a 19 anni, con addosso la pressione del Prescelto. Era una forza della natura. Basava il suo gioco su quel fisico eccezionale ricevuto in dono dai genitori e dalle divinità del basket. Negli anni, ha saputo aggiungere tanto altro al suo repertorio, diventando quel giocatore fantastico che conosciamo. Il tiro, ad esempio, non è innato. Lo ha costruito attraverso un’etica del lavoro straordinaria. La stessa etica che oggi, a 38 anni, gli permette ancora di segnare 30 punti a partita. Una cosa fuori dal mondo».

Nel suo ultimo libro, NBA Confidential, lei racconta «fatti e misfatti dei fenomeni del basket americano» concentrandosi sui cosiddetti «capibranco». In che modo LeBron è un capobranco? E quali sono i suoi lati oscuri?

«È un leader naturale. Ha un carisma che non si impara. O ce l’hai, o non ce l’hai. LeBron, inoltre, ha spesso scelto le persone che voleva intorno, compresi i compagni di squadra. Ha agito da ‘‘GM ombra’’, cambiando totalmente le dinamiche della NBA. L’ha trasformata in una lega più propensa ad accettare che le star siano icone a 360 gradi, con potere quasi assoluto. Non a caso LeBron è soprannominato King James. È un monarca. Nel bene e nel male, ha creato dei gruppi che lo seguono a prescindere. Senza critica interna. Ha anche fatto il bello e il cattivo tempo a livello di allenatori. Insomma, il LeBron giocatore non teme confronti, ma il personaggio è più chiaroscuro. Il suo modo di essere capobranco, leader carismatico e trascinatore ha degli effetti collaterali scomodi. Non si limita a fare il suo mestiere. Vuole essere un po’ GM, un po’ coach, un po’ agente. In una dinamica lavorativa, questi eccessi possono essere controproducenti. Però non è il caso di fare gli schizzinosi. Se non fosse stato così, LeBron non avrebbe avuto quella voglia di emergere che lo ha fatto diventare il grande campione che conosciamo».

Dopo il canestro che ha certificato il record di punti, la partita tra L.A. Lakers e Oklahoma City Thunder si è fermata per celebrare King James. In campo è entrato lo stesso Abdul-Jabbar. Alla fine i Lakers hanno perso una partita importante per la loro disperata corsa ai playoff, ma non sembrava importare a nessuno. Cosa ci dice, tutto questo, della NBA e del suo essere «show»?

«Ci dice che in questa lega l’intrattenimento conta almeno quanto la competizione sportiva vera e propria, soprattutto in regular season. Non è casuale che il record sia caduto in casa, a Los Angeles. Nelle ultime apparizioni dei Lakers, LeBron è stato tenuto fuori in un’occasione adducendo un malanno. Probabilmente non hanno voluto rischiare che il primato venisse battuto in trasferta. A Los Angeles, la città di Hollywood, non si aspettava altro che questa celebrazione. Lo stesso commissario della NBA, Adam Silver, aveva affermato che in caso di record si sarebbe fermata la partita. Sono situazioni pianificate dai vertici della lega. Lo show è una componente essenziale per attrarre un pubblico affamato di numeri roboanti e bisognoso di celebrare eroi».

Cosa resterà del grande Kareem Abdul-Jabbar dopo questa detronizzazione?

«Bella domanda. Io sono del 1975 e il suo leggendario gancio-cielo me lo ricordo bene. Dalla mia Toscana, mi godevo le sue imprese. Non so cosa rappresenti Kareem per i ragazzi di oggi. È un personaggio interessante, ma anche spigoloso, difficilmente inquadrabile in uno schema, in un sistema. Forse per questo è rimasto un po’ ai margini della NBA. Non ha allenato, non ha fatto il general manager. Si è limitato al ruolo di ambasciatore ed ex campione. Nell’epoca dei social media, in cui gli eroi si costruiscono con l’apparire piuttosto che con l’essere, è difficile dire cosa resterà di lui. Mi auguro che ci sia la forza e la volontà di far brillare anche le stelle del passato, valorizzando e preservando la storia del gioco. La NBA ci sta provando, ma temo che in questa era, dove tutto va veloce, i giocatori passati di moda che non ci mettono più la loro faccia tendano a sparire. Mi auguro che non sia il caso per Kareem».

L’uomo che batterà il record di punti di LeBron James – se mai verrà battuto – sta già giocando in NBA o deve ancora arrivarci?

«Credo che non ci sia ancora. Se proprio devo fare un nome, l’unico spendibile mi sembra quello di Luka Doncic, la stella slovena di Dallas. È esploso molto giovane, ha un talento smisurato. Escluderei invece Nikola Jokic, centro serbo di Denver: conoscendolo, infatti, non ce lo vedo a giocare fino a 40 anni. Sarà dura anche per Doncic, ragazzo gaudente. Credo che questo record resisterà tantissimo e che nessuno dei migliori giovani dell’attuale NBA sia in grado di andare a prenderlo. E poi LeBron ha ancora tante partite davanti a sé».

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